M. Fiumanò su Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan

Uno stralcio dell’intervento di Marisa Fiumanò tenuto a Napoli  l’8 marzo nella sala Hde, p.tta Nilo in occasione della presentazione del libro

Fobia e perversione nell’insegnamento di Jacques Lacan ( a cura di Rossella Armellino e Maria Parisi) Edizioni Cronopio Napoli 2012

                          Napoli è una città contro-fobica?

 Il libro ruota intorno al seminario IV di Lacan “La relazione d’oggetto ”. Ogni contributo pur nella diversità degli approcci e della formazione ( non tutti gli autori sono psicanalisti), segue uno stesso stile dl lavoro: si lavora il testo del seminario, si riapre, si commenta,  se ne estraggono dei punti e  su di essi si avanza con nuove ipotesi o nuove tesi, secondo la  propria esperienza  clinica e/o il proprio sapere.

Condivido questo stile e voglio perciò anch’io aggiungere una piccola pietra alla costruzione collettiva.

Comincio con una nota, impressionistica se volete, la prima che mi è venuta in mente leggendo un testo sulla fobia scritto a Napoli.

Mi sono chiesta se la fobia, la grande fobia, la fobia maggiore, la fobia dello spazio, l’agorafobia, sia compatibile con questa città.

Certamente a Napoli esistono gli agorafobici, persone che non riescono ad uscire di casa, che soffocano nelle file al supermercato o in quelle alle poste, che temono di svenire per strada o di soffocare. Eppure la città  sembrerebbe fatta  per contrastare queste manifestazioni sintomatiche, avvolgente com’è di suoni e rumori, con i vicoli stretti che fanno da confine per chi li attraversa , i corpi  della gente che si fanno barriera l’uno con l’altro, che non temono di toccarsi, di spingersi, di affollarsi negli stessi luoghi.

A Napoli non c’è la distanza “di cortesia”, civile ma un po’ paranoica, cui si è abituati al Nord. Napoli è una città caratterizzata dai confini architettonici e solo il mare resta  uno spazio aperto, benchè  anch’esso risulti circoscritto dalla cornice di un golfo.

Napoli non è neanche una città fobica nel senso delle fobie più comuni, come quella dello “sporco”, ad esempio: sporco dei corpi, sporchi perchè  vivi e dunque impregnati di umori, sessuali perché del corpo.

Napoli convive benevolmente con gli umori umani, e non solo perché difettano le discariche.

Il rapporto della gente con i rifiuti, al di là delle rivendicazioni di una città  più pulita, non è di repulsione e neanche sintomatico.

Lo “sporco” e ciò  cui rinvia, vale a dire gli umori sessuali, quelli che si producono quando si gode, non è un sintomo qui.

Napoli nel suo complesso non è perciò una città che alimenta la fobia.

Certo non abbiamo statistiche in proposito, rispetto ad altre metropoli, ma le mie osservazioni non sono sociologiche e mi dispensano da dimostrazioni di questo genere. Devo però giustificarle, cosa che farò fra un momento.

Queste riflessioni su Napoli mi  permettono anche di distinguere  la fobia in quanto struttura e le fobie in quanto sintomi. L’agorafobia, la fobia degli spazi, quella che possiamo considerare “fobia maggiore”, quella che induce a rifugiarsi progressivamente in luoghi sempre più chiusi e riparati, rinvia in genere ad una struttura; i sintomi fobici, invece, possiamo trovarli anche in altre strutture. La fobia dello sporco, ad esempio, può andare benissimo d’accordo con una struttura isterica o ossessiva per la ragione che non è il sintomo che fa la struttura, cioè non deduciamo una struttura, né facciamo una diagnosi fondandoci sui sintomi.

Napoli, con la sua architettura, con la cultura che vi si collega e la sua vivacissima lingua-dialetto tanto cara ai suoi abitanti, “protegge”, in un certo senso, dall’agorafobia.

Charles Melman forse potrebbe sottoscrivere questa tesi. E spiego perché.

In uno dei primi saggi del libro Melman, per spiegare qual è il godimento dell’organizzazione fobica, invita i suoi ascoltatori a pensare a un gioco che più o meno tutti devono aver fatto durante l’infanzia: quello di rifugiarsi in un luogo chiuso con un piccolo partner dell’altro sesso per proteggersi da un animale spaventoso che minaccia dall’esterno.

Situazione erotica, lui dice, proprio a causa di quel “terzo” che dall’esterno esercita la minaccia.

Questa situazione esemplare, comune nei giochi infantili, nel caso della fobia non si presenta come gioco ma come angoscia, come “attacco d’angoscia”. E l’attacco d’angoscia si verifica quando viene a mancare l’immagine del simile che fa da supporto, quando cioè emerge nello spazio un punto di fuga all’infinito. Lo spazio è strutturato da questo punto di fuga, vale a dire qualcosa di fronte alla quale il soggetto vacilla perché si sente esposto, da solo, davanti a qualcosa senza alcun limite, senza schermo.

Ho pescato nella nostra ricca tradizione letteraria per trovare una descrizione della fobia ed ho trovato qualcosa di illuminante sulla funzione consolatoria del simile e sulla minaccia che viene dall’esterno di cui parla Melman. Per la verità non ho cercato, è lei, la poesia che mi ha cercato, che mi ronzava nelle orecchie. E’ una poesia di Giovanni Pascoli che certo conoscete; si chiama: “I due orfani”.

Ve la leggo.

Giovanni Pascoli : Primi Poemetti “I due orfani”

I

Fratello, ti do noia ora, se parlo?»
«Parla: non posso prender sonno». «Io sento
rodere, appena…» «Sarà forse un tarlo…»

«Fratello, l’hai sentito ora un lamento
lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane…»
«C’è gente all’uscio…» «Sarà forse il vento…»

«Odo due voci piane piane piane…»
«Forse è la pioggia che vien giù bel bello».
«Senti quei tocchi?» «Sono le campane».

«Suonano a morto? suonano a martello?»
«Forse…» «Ho paura…» «Anch’io». «Credo che tuoni:
come faremo?» «Non lo so, fratello:

stammi vicino: stiamo in pace: buoni».

II

«Io parlo ancora, se tu sei contento.
Ricordi, quando per la serratura
veniva lume?» «Ed ora il lume è spento».

«Anche a que’ tempi noi s’aveva paura:
sì, ma non tanta». «Or nulla ci conforta,
e siamo soli nella notte oscura».

«Essa era là, di là di quella porta;
e se n’udiva un mormorìo fugace,
di quando in quando». «Ed or la mamma è morta».

«Ricordi? Allora non si stava in pace
tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»
«ora che non c’è più chi si compiace

di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni».

Il dialogo tra i due fratelli gioca fra i due piani dell’angoscia e della razionalità, alternativamente;  al timore angosciato dell’uno risponde una spiegazione razionale dell’altro fino a quando i due collassano entrambi rispetto alla minaccia che viene dall’esterno e rispetto alla quale non c’è possibile barriera.

Il punto su cui si fonda quest’articolo di Melman, ed è il motivo per cui ho detto che Napoli è refrattaria alla fobia, è la sua lettura della fobia legata alla costruzione dello spazio urbano così come è stato organizzato architettonicamente a partire dal Settecento. Vale a dire uno spazio centrato su un punto di fuga all’infinito che per Melman ha funzione di sguardo. E’ l’emergenza dello sguardo che scatena l’angoscia rispetto alla quale la fobia protegge.

La fobia, potremmo dire, permette di mantenere il fantasma; quando il fantasma si dissolve e appare l’oggetto in funzione di sguardo, il soggetto svanisce.

Questa tesi di Melman conforta la mia intuizione su Napoli, sul perché la gente qui si senta, in genere, “a casa”, al riparo: ampissime zone di Napoli sono state costruite prima del Settecento  e i “punti di fuga” all’infinito sono piuttosto rari, almeno nella città vecchia.  Anche la via Spaccanapoli, che taglia la città da cima a fondo, ha a lato  i confini delle case che contengono la traiettoria dello sguardo e lo interrompono con un’infinita serie di ostacoli e barriere, soprattutto barriere fatte di corpi che si affollano.

C’è un altro punto che il testo di Melman mette in rilievo. Oggi è la festa della donna,  e anche noi a nostro modo ce ne occupiamo.

Melman dice che l’angoscia si scatena nel momento di emergenza dello sguardo quando “ non è stato pagato il tributo simbolico che conferisce identificazione sessuata”. Il fobico, dice Melman, non ha un’immagine stabile di sé, non ha statuto tanto immaginario quanto simbolico che gli permetta di circolare, è sprovvisto di carta d’identità. Come dire che il fobico è donna, almeno un po’ donna. Lo statuto simbolico per una donna, infatti, ha sempre un tratto di instabilità: Melman chiama questo tratto “touche fobique”, tocco fobico.               La propria immagine per una donna fa problema, l’identità femminile  fa problema, una donna non è mai “a posto”, è sempre fragile, esposta, tranne se è madre ( ed anche in quel caso non sempre) oppure se ha rinunciato al suo statuto di donna, se ha scelto una posizione maschile.

Non ho toccato che due punti perché la ricchezza e il numero degli interventi contenuti in questo bel libro m’impediscono di commentarli uno per uno. Mi limito solo a ricordare il testo di Rossella Armellino come esemplare di un metodo di lavoro. Rossella, come nella tradizione dell’ALI, nel leggere il seminario IV di Lacan, riprende un testo più volte citato, inedito in italiano, e lo lavora con precisione. E’ L’Osservazione di una fobia di Annaliese Schnurmann, un’allieva di Anna Freud. E il caso di una bambina , Sandy, che ha la fobia dei cani e che viene riletto con le categorie di Lacan piuttosto che con quelle, insufficienti, ”annafreudiane.” Anche nel suo secondo articolo Rossella Armellino applica lo stesso metodo: qui si tratta di un caso di Ruth Lebovici, anch’esso citato da Lacan e ripreso nel dettaglio attraverso la lettura del testo originale. E’ un metodo di lavoro che volentieri sottoscrivo così come quello, altrettanto minuzioso, che utilizza Amalia Mele a proposito di alcuni capitoli del seminario di Lacan. Mi auguro che anche la giornata del 18 maggio a Milano dedicata anch’essa alla discussione del seminario IV di Lacan sia altrettanto fine e rigorosa e che possa contare sulla presenza di voi tutti.

 

 

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