Renata Miletto – Per una clinica del godimento

Secondo giro

Renata Miletto

 

 

In occasione del seminario d’estate del 1997 a Torino sui Non dupes errent presentai 3 lezioni e feci un accenno al caso di una ragazza che si chiedeva, come Lacan nella lezione 12 del 23 aprile 1074:  l’albero gode? Fu la porta d’entrata per me in questo seminario così difficile, di intendere lo spessore della clinica che spingeva Lacan a porsi questioni per me al limite dell’incomprensibile. E’ stato però solo in questo secondo giro che ho potuto coglierne meglio la portata e provare a rendere conto di quel caso e di ciò che è stato efficace in quella cura.

Con il nodo borromeo Lacan ha voluto presentare in positivo il Reale, sottraendolo alla supposizione di cui è sempre stato oggetto, al di là delle rappresentazioni, loro bordo, o meglio, luogo enigmatico cui fanno bordo le rappresentazioni, luogo immaginato abitato da chi, da ciò, che non faceva parte di questo mondo, da cui faceva ritorno ciò che era rigettato. Il caso presentava una particolare attrazione a presentificare questa dimensione, abitare questo luogo, nella disposizione a cercare la morte, che è la figura più certa della sua esistenza, ad isolarlo da ciò che lo contaminava, a goderne nel ritrovarlo vuoto, ripulito, puro. Il nodo permetteva anche di situare la contiguità, in questo caso disturbante, degli altri registri, il loro insistere nell’infiltrarsi, nonostante i tentativi di cancellarli o evitarli; di pensare il lavoro della cura, transfert compreso, al suo interno, come quella situazione privilegiata grazie a cui emerge l’intreccio delle tre dimensioni in cui si colloca il dire del soggetto che parla, e che parlando, attraverso l’esperienza dell’inconscio, incontra un Reale differente dalla morte, che gli appartiene come vivente, che abita il suo corpo, dirige la sua condotta, manca ai suoi pensieri.

In altre parole ho potuto intendere quanto dice Lacan sul nodo, che la sua messa in piano è lo stesso numero 3 e insieme, quella dimensione che fa tre con le altre due, e permette di fare i conti con il fatto che ognuna delle tre esiste in quanto esistono le altre due.

L’elaborazione del nodo di questo seminario consente di pensare a tutti quei casi, come questo, in cui il desiderio è assente, in particolare quello sessuale, fino al rifiuto di un’identità sessuata, a favore del farsi oggetto di un godimento, soprattutto altro da quello sessuale.

Il nodo cioè  permette di considerare la variazione dei rapporti tra i differenti godimenti quando è quello Altro ad essere preminente e sembra invadere tutto e permette di considerare i differenti versanti in cui può operare il Nome del Padre, i Nomi del Padre dunque, in casi in cui, come in questo, il godimento fallico è rigettato, il senso ridotto alla sua mancanza, e la funzione del N d P, privata del suo esercizio attraverso le figure tradizionali, è ricercata nell’incontro con qualcosa di anonimo, desoggettivato, acefalo, nel Reale.

Si può ben dire con Melman che la nuova clinica prende sul serio il Reale, nel senso che è l’esito del tentativo di far valere questa dimensione, quando questa non è stata introdotta attraverso un interdetto sostenuto da un agente. Il bambino, ricorda Lacan nella Lezione III, è fatto per apprendere qualche cosa, e cioè che il nodo sia ben fatto. Perché non sia, se posso dire, non dupe, e cioè dupe del possibile. Direi invece che questi casi illustrano molto bene cosa sia essere non dupe.

 

La prima questione che mi sono posta, ma di cui ho lasciato cadere la risposta, è se in questo caso il nodo fosse davvero borromeo, o piuttosto olimpico, o se la sua tenuta non fosse consentita da un quarto anello. Ho tentato invece di affidarmi a quanto Lacan enuncia in questo seminario sul Reale del nodo a tre. Nella lezione III Lacan dice che il nodo borromeo è quello normale, e cioè quello per cui la perdita di un anello rende folli; ho pensato che questa perdita in molti casi oggi è piuttosto una perdita di funzione, di esercizio, di pertinenza, è piuttosto la scomparsa di un anello che scivola sotto ad un altro che lo nasconde, in una omogeneizzazione dei due, o il suo rigetto in un tentativo di disgiunzione, ma che tuttavia le tre dimensioni restino annodate.

Arianna, così la chiamerò, non era folle, la vita che conduceva sì. E in più, era la vita che voleva fare, che rivendicava la libertà di fare, contro la famiglia, la società, perfino contro il mondo dei suoi simili, quello della droga. Bambina solitaria e silenziosa, obbediente sui doveri e perplessa sui divertimenti degli altri bambini, era diventata anoressica fin dalla prima adolescenza, e in opposizione sistematica nei confronti della famiglia. Dopo un breve periodo di militanza nel movimento studentesco e poi in quello femminista, si era “tuffata nel buco” ed era tossicodipendente da molti anni, salvata più di una volta da un’overdose. Si svegliava al Pronto Soccorso, si chiedeva: perché vivo ancora? Perché non riesco a morire? Cosa mi tiene in vita? Cosa tiene in vita, tolto tutto ciò che tiene in vita gli altri, che da senso alla loro vita e che io rifiuto? Non aveva senso. Su questo era venuta a cercarmi dopo 10 anni di quella vita.

Il limite Arianna lo cercava nel R, aldilà dei suoi bordi, assicurazione di una direzione e di una qualche tenuta, ma era per lei anche il luogo da interrogare. E non ne perdeva il filo, né nella sua vita, né con i nostri incontri: tornava sempre, anche dopo lunghe assenze, quando scompariva senza preavviso. Fu in un periodo successivo, quando veniva più regolarmente alle sedute, che si chiedeva, guardando una pianta grassa: lei gode? Era ormai sotto metadone, faceva un lavoro protetto, e poi si chiudeva in casa al buio con qualche sonnifero, non vedeva e non parlava con nessuno, tranne due volte a settimana con me e una volta con l’operatore del servizio per le tossicodipendenze.

L’albero c’è, c’è il vegetale, fa ramo, è il suo modo di presenza, dice Lacan nella lezione XII. Per Arianna la pianta grassa era la forma più ridotta di vita, neanche bisogno di tanta acqua, crescita minima: con le sue spine respingenti non faceva ramo, il suo modo di presenza era precedente alla biforcazione, prima dell’opposizione tra il Cielo e l’Inferno, tra il desiderio e l’orrore di sapere; nel suo rigetto radicale del disordine del mondo, interrogando la sua pianta grassa, Arianna tuttavia veniva a parlarne, non per lamentarsi, ma stupita dall’insistenza della vita, per cercarne il senso al di fuori del senso. Lacan ricorda che nella scena primaria del Paradiso terrestre era l’albero che era proibito, non la mela, il serpente, ma l’albero prima della biforcazione, era all’albero che non bisognava avvicinarsi, di cui non bisognava godere. Non è il godimento indifferenziato che è proibito, quello di un puro R; ma, in mancanza dell’interdizione che introduce una distinzione tra i godimenti, è a questo che Arianna tendeva.

L’albero, continua Lacan, è impossibile sapere se goda, ma è certo che l’albero è la vita. La storia, avverte, è da ripulire dal senso se si vuol avere qualche chance di accedere al Reale, ma non bisogna dimenticare che è questo che fa rigetto: era esattamente ciò che Arianna tentava di fare, nel suo rigetto, salvare il senso almeno come questione, ripulendolo da ogni risposta. Godeva della sua mancanza e grazie a ciò il Reale per lei, nonostante tutto, non era fuori dal nodo: non era disgiunto dall’Immaginario e non era neanche solo il Reale immaginato vuoto, pieno di niente, che ricercava nell’anoressia; non era un Reale disgiunto dal Simbolico perché era il Reale della vita che non è originata da nessuno eppure è regolata: Arianna non interrogava i gigli del campo, non supponeva la Provvidenza, ma sapeva tuttavia che c’è un sapere che sostiene la vita, un’istanza cieca, anonima, automatica, un sapere senza soggetto. Gode? E nel porsi la questione, supponeva un altro godimento fuori linguaggio, ma non fuori di un ordine, che le offriva dei segni circa il suo stato di presenza: anche una pianta grassa può avere l’aria patita. Incontrava così l’impossibilità di una conoscenza, un “no” muto, che necessariamente l’obbligava a restare sulla questione non volendo immaginarne una risposta, che sarebbe stata solo sua, non della pianta, mentre tentare di rispondere sarebbe stato un dire.

 

Negli anni della tossicodipendenza, se non era sotto l’effetto pieno della sostanza, odiava tutto, ed aveva paura di tutto. In particolare era sopraggiunta una fobia dei serpenti, animali enigmatici, un corpo senza membra, che si muove silenzioso, che vive lunghi mesi in letargo, poi cambia pelle e ricomincia a muoversi. Il terrore era che potessero toccarla. Quando iniziarono a comparire anche nel buco, saranno un elemento che la spinge ad uscirne per sfuggirli.

Se il godimento fallico e quello del senso erano radicalmente rigettati, quello che per lei allora era l’Altro godimento non riusciva ad essere pieno, restava intaccato ed angosciante, perché non del tutto inanimato, non solo i serpenti, ma i mostri che sono i drogati. Arianna non cercava di fatto la morte fisica: restava sul bordo RI come mostro, e cercava una vita ripulita da ogni forma di animazione, sul bordo RS, e il senso di questa, quando non ne ha più nessuno.

Parlando della pulsione di morte nella lezione VIII Lacan rimprovera a Freud una certa confusione tra morte e vita inanimata, quella cioè supposta non saper niente dice, priva di animazione, cioè, dice più avanti nell’ultima lezione, quella dell’11 giugno, priva dell’animazione apportata dai sema, di ciò che fa senso e comporta sentimento e che è qualcosa che s’incarna nel lalingua. L’animazione è, senza tirar fuori la storia dell’anima, ciò che solletica e sollecita il godimento del corpo. Questa animazione non è la nostra esperienza, non proviene dalla motricità, che anima il corpo, ma lo solletica come un parassita, è un godimento privilegiato apportato dai sema, è godimento fallico. Tutto ciò che fa senso nella lingua si rivela legato all’ex-sistenza di questa lingua e cioè che è fuori dall’affare della vita del corpo … E’ quando questo godimento semiotico si aggiunge a quello del corpo che fa problema, perché lo sollecita nella misura in cui non c’è rapporto sessuale. …

Arianna si rifiutava di entrare nell’animazione della lingua, non riconoscendola propria, rifiutando così anche il suo corpo che inizierà a semiotizzare solo con la cura.

Quando l’ho conosciuta provava grande fastidio per il suo corpo, per il suo interno, per ogni escrezione; la tranquillizzava solo immaginarlo vuoto; aveva l’abitudine di depilarsi totalmente, anche i capelli. Nel corso del lavoro questo divenne un sintomo della sua volontà da eliminare ogni occasione di sentirsi e di sottrarre all’Altro tutto ciò che poteva portare informazioni su di sé, anche quelle genetiche, che venivano dai genitori. Di cosa poteva dire essere solo suo? Ma in un sogno il suo corpo germogliava di rametti, che caduti a terra si trasformavano in piccoli serpenti. Era orrore, ma anche una certa curiosità non priva di affetto. Arrivò dunque a raccontare in seduta di come aveva iniziato a parlar loro, a giocarci. I serpenti non erano più solo nell’erba, nel buio, ma erano entrati nel suo dire, era suo anche ciò che credeva solo degli altri, interno cosa credeva esterno, la dimensione dell’Altro le apparteneva più di quanto avesse mai pensato.

 

Nel corso del primo giro di lettura di questo seminario il nodo di Arianna mi aveva fatto pensare alla perversione del nodo di cui Lacan parla nella lezione IV, dove il Reale fa da medio tra Immaginario e Simbolico, la morte unisce il corpo al godimento ed è luogo di un desiderio masochista. Fa da mezzo, ma anche da fine nel tentativo di tenere disgiunti I e S, questo ridotto quasi alla corda, mentre I e R sono sovrapposti; un nodo in cui il godimento Altro invade tutto e restringe al minimo il godimento fallico e il senso. Un godimento del Reale, che tenta di restare fuori senso e fuori linguaggio ma ne resta infettato, un godimento del corpo ridotto al sentire il vuoto dell’anoressia e il buco della sostanza.

Riprendendo per questa occasione il caso, ho cercato di abbandonare il riferimento intuitivo al nodo e di costruirlo, sia nella sua messa in piano, sia manipolando i cordini. Ed è iniziato un tormento di cui posso qui solo testimoniare, perché la costruzione di un nodo borromeo ha degli obblighi e degli impossibili che non lo fanno piegare a qualunque necessità di dimostrazione.

Il primo problema era se era il R a sovrapporsi all’I o viceversa. Il discorso di Arianna sembrava dar credito alla prima soluzione, e ritrovavo così il nodo che Melman ha ipotizzato per la fobia, possibile in quella prima fase della cura (RIS destrogiro); ma in questo caso, come situare la tossicomania, dove è il R che fa buco mentre nella fobia è l’I? E l’anoressia, che resta a tuttoggi il sintomo prevalente, mentre la fobia e la tossicodipendenza sembrano essere superate?

Allora ho fatto l’ipotesi che è all’angoscia che per Arianna si è trattato di rispondere dando via via soluzioni diverse all’evitamento della perdita dell’oggetto a, dunque della castrazione, in un percorso verso una qualche forma di simbolizzazione della mancanza d’oggetto, tenendone fermo il versante reale: il niente, l’oggetto reale-droga, l’oggetto fobico. Questo ha potuto corrispondere a trasformazioni successive del nodo. Quale nei vari passaggi e quale con la cura?

Forse le trasformazioni del nodo al passaggio dell’anoressia alla tossicomania e alla fobia sono state l’effetto di un’operazione in uno spazio speculare che negava il Reale del nodo a tre, sia con il rigetto della dimensione Simbolica e del suo godimento, sia con l’omologazione del R e dell’I; trasformazioni dunque che hanno trattato il nodo come fosse a due dimensioni, negando la terza che tuttavia insisteva. Questo corrispondeva al modo di Arianna di tagliare tutto in due versanti opposti e contrari: io e gli altri, buono e cattivo, intreno ed esterno… . Se il nodo borromeo messo in piano, rovesciato allo specchio, conserva l’ordine e cambia la giria – per quanto mi risulti enigmatico il senso da dare alla giria – quale può essere la trasformazione allo specchio di un nodo in cui due anelli non sono distinti e il terzo si distingue solo per il suo essere quasi disgiunto? Non posso rispondere alle mie questioni, ma in ogni caso la manipolazione del nodo mi è stata molto utile per lavorare questo caso clinico e per orientarmici un po’ meglio.

Una cosa è sicura, ed è che il lavoro analitico ha avuto degli effetti per Arianna, forse perché proseguiva un’operazione che lei stessa tentava da tempo senza successo: come avere accesso al Reale inanimato e goderne? Soltanto che il Reale che ha incontrato non è stato lo stesso, ed è stato inanimato fino al momento in cui lei stessa rianimava nel suo dire il Reale del lalingua; ha così annodato il godimento del Reale che cercava con il Reale del godimento e cioè che non c’è godimento per l’essere parlante al di fuori di un dire che tenga conto delle tre dimensioni.

Arianna ha potuto entrare nel lalingua, quella parte del linguaggio che le apparteneva singolarmente, depositata fin nel Reale del corpo, che le permetteva di immaginarlo, che rivelava nel suo dire qualcosa che fin a quel momento non le appartava, e che pur mancando al suo sapere, se inteso, faceva sorgere un sapere a cui poteva supporsi come un soggetto, l’altra Arianna, diceva scherzando: non c’era bisogno, l’Altro, di andarlo a cercare tanto lontano.

L’albero ha potuto spingere fuori qualche ramo; con Lacan dell’ultima lezione: perché non dire che lalingua è in rapporto al godimento fallico come i rami all’albero? …lalingua, non importa quale elemento del lalingua, è, in relazione al godimento fallico, come una briciola di godimento. E’ in questo che spinge le sue radici così lontano nel corpo …l’inconscio è un sapere in quanto lo definisco connessione di significanti …  è un sapere disarmonico che non si presta ad un matrimonio felice … nondimeno il nome è fatto per esprimere la felicità, il buon incontro, ed è quello che mi è venuto per dirvi ciò che si potrebbe immaginare di un buon adattamento …

Forse in modo un po’ semplicista, penso che il lavoro della cura abbia operato sull’anello del Simbolico rianimando una consistenza sui tre versanti, cambiando i punti d’incrocio con gli altri registri e comportando un rimaneggiamento del nodo nel suo insieme. Per esempio la scoperta della connessione di due significanti ha permesso l’apertura di un senso fino ad allora troppo rigido, che fissava un’alienazione da respingere. Essere in lotta “contro il potere” si aerava di una lotta “contro il possibile” che la riguardava intimamente; il Reale che cercava era necessario e non poteva cessare di scriversi: nessuna possibilità di una contingenza. Che per un momento la significazione restasse sospesa per ripartire poi altrimenti, le ha testimoniato che una tenuta del Simbolico della lettera era possibile, respingendo nell’Immaginario la tenuta di un puro Reale. Analogamente per il “mostro” che si “mostra”.

Una tappa importanta del lavoro è stata quella sul suo cognome, che è il nome comune di un vegetale, l’opposto di una pianta grassa. La lettura dell’articolo di J.L.Chassaing, Classer par type ou par icone (Revue lacanienne n.6), mi ha chiarito sul valore da dare a un nome generico per fissare un’identificazione immaginaria; tanto peggio se è il cognome e non solo il nome scelto nel corso della tossicomania. Questo lavoro ha potuto sostenere una nominazione e un’identificazione non più soltanto immaginaria, e costituire un punto di ancoraggio più solido, nel R della lettera, nel S del nome e nell’I del senso per un Nome del padre indebolito dalla fragilità paterna e dalla possibilità di scivolamento metonimico che il suo nome consentiva.

Per concludere, a proposito della ripetizione, questa oggi insiste soprattutto sulla necessità della ripetizione di questo annodamento: anche se Arianna ha voluto a un certo punto interrompere la cura, di fatto ritorna di tanto in tanto, regolarmente, e sono 20 anni.

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