Jorge Cacho
Il 6 maggio scorso, nella sua San Sebastián, è morto Jorge Cacho. Dire qualcosa del proprio analista, anche se da diversi anni non lo era più per me nella realtà ¬– realtà di itinerari, di strade, di città, di un cabinet – rileva di una certa impossibilità. È l’impossibilità di render ragione di una verità che non è nei fatti e non si trova negli eventi. In una relazione (d’amore) di transfert il dire – il dirsi – rincorre il vero come la tartaruga tiene dietro ad Achille. L’aporia rimane, in analisi, anche se si crede risolta. In questo labirinto in cui si entra senza alcun filo, perché non c’è nessuna Arianna, e che non porta a nessun Minotauro nascosto in qualche anfratto, l’unico supposto appiglio è proprio lui, l’analista, che nel caso di Jorge Cacho si presentava a me con i caratteri della delicatezza, della finezza, della pazienza, e con i toni di una benevolenza che prendeva forma in un sorriso sincero, che aiutava a dire anche nei momenti più duri.
Da quest’uomo, Jorge Cacho Nazábal – così il suo biglietto da visita “spagnolo” consegnatomi nel nostro ultimo incontro a Parigi – ho imparato molto, anche per una disposizione che mi dava l’ardire di sentirmi “apparentato”: l’accostamento non superficiale ai testi, l’attenzione per le parole (il greco!), la predilezione per le fonti, che fossero gli autori della classicità, o Freud, o Lacan. Ma, soprattutto, ho intuito, intravisto, in qualche modo “sentito” qualcosa della posizione più difficile da tenere: la posizione dell’analista.
Alessandro Bertoloni, 10 maggio 2023