Fabrizio Gambini – L’angoisse (Séminaire 1962-1963) – Lezione XXV del 3 luglio 1963

Poiché si tratta oggi di riassumere l’importanza di una lezione che è l’ultima di questo seminario, si tratta anche, necessariamente, di riassumere, in un modo o in un altro, l’importanza dell’insieme del seminario. Assumerò dunque un rischio e, nel tentativo di non limitarmi eccessivamente a percorrere la lettera dell’insegnamento di Lacan in questa singola lezione, cercherò piuttosto di indicare quale è l’importanza di questo seminario, e di questa lezione, per me.

Alla fine del Seminario su L’identificazione ero rimasto con una questione, che è una questione clinica e, direi, attuale. La questione concerne la funzione del punto-buco all’interno stesso dell’oggetto piccolo a. Se il taglio in forma di otto interno, o di doppio giro, come volete, si fa sulla superficie di un cross-cap, la funzione particolare del punto buco non è evitabile. Forse qualcuno ricorda che quando abbiamo studiato il Seminario su L’identificazione avevo autoprodotto un piccolo video sulla costruzione del cross-cap a partire da un foglio di carta formato A4. Il punto in cui si arrestano le forbici nel taglio che si fa a partire dal centro del lato più corto, assieme al punto d’attacco delle forbici, è il punto-buco e, ovviamente, ripeto, non c’è modo di evitarlo. Affinché il punto-buco divenga un punto qualsiasi della linea d’interpenetrazione della superficie sulla quale si effettua il taglio a otto interno, bisognerebbe che la superficie stessa non fosse un cross-cap bensì una superficie di Boy, ovvero la superficie di una sfera in cui ogni punto è congiunto al proprio punto antipodale ovvero l’immersione nello spazio tridimensionale di un piano proiettivo reale. Ma Lacan non ha parlato di una superficie di Boy, bensì di cross-cap, ha scelto il cross-cap, dunque la superficie sulla quale la funzione del punto-buco è inevitabile. A mio modo di vedere questo significa che non ci possiamo sbarazzare della funzione di (-ϕ) all’interno del piccolo a.

La questione è dunque quella d’un ordine fallico che, come sapete tutti benissimo, è una questione clinica, etica, che ci tocca ogni giorno e molto da vicino.

Come al solito, nel seminario sull’angoscia Lacan segue Freud da vicino per poi staccarsene e andare al di là. In particolare, Lacan segue quella specie di risposta che Freud, col suo testo Inibizione, sintomo e angoscia, dà a Rank e a Ferenczi a proposito della nascita, a proposito del traumatismo della nascita del piccolo essere umano come momento genetico dell’angoscia. La risposta di Freud era più o meno questa: “Hai ragione Otto, quel che dici è molto giusto, va bene, ma pensa per favore che la nozione, il concetto, la percezione stessa che noi abbiamo della separazione, dipende dalla sola esperienza di separazione che noi non possiamo immaginare.” In effetti noi possiamo facilmente immaginare, visualizzare il corpo del bambino che si separa dalla placenta e dal corpo della madre; il taglio del cordone ombelicale è perfino diventato un gesto non privo di un valore simbolico, possiamo filmarlo, fotografarlo. Nello stesso modo possiamo filmare il distacco della bocca dal seno. Lo stesso Lacan ce ne dà una specie di sequenza filmica in questo seminario e inoltre potremmo filmare altrettanto facilmente la separazione dell’oggetto anale dal corpo del bambino. Mi spingo fino a dire che non c’è alcun mistero, non c’è del non rappresentabile nell’emissione di fiato che separa il bambino dall’onda sonora che lui stesso emette per sentirla ritornare attraverso l’orecchio con sconcerto e terrore. O ancora, non c’è niente di irrappresentabile
nella scomparsa di un oggetto dal campo visivo del bambino: una tenda, una porta, un angolo e il gioco è fatto. Tanto è vero che, a proposito di gioco, il bambino è perfettamente in grado di sforzarsi di padroneggiare quest’esperienza munendosi di un filo e di un rocchetto. La sola esperienza di separazione che non è rappresentabile, che è impossibile da visualizzare è quella che riguarda l’oggetto che si constata di aver perduto o che ci si danna l’anima a mantenere nel timore di
perderlo. In altre parole, l’oggetto fallico. È questo, dice Freud a Rank, che fa della castrazione il momento di ordinamento simbolico di tutte le precedenti esperienze di separazione.

Ora, in questa lezione, come in tutto il seminario, Lacan riprende la risposta data da Freud a Rank e a Ferenczi. Il seno, dice testualmente, non è il solo oggetto che si offre a riempire la funzione “separazione”, l’oggetto anale riempie in modo più chiaro questa stessa funzione. È l’oggetto anale, prosegue Lacan, che. per le caratteristiche che gli sono proprie, ci permette di articolare nel modo migliore la funzione dell’oggetto a in quanto primo supporto, nella relazione all’Altro, della
soggettivazione. Resta che l’oggetto a si differenzia dall’oggetto anale, dal seno, e dallo stesso fallo, ma qui potremmo dire dal pene, poiché porta in sé la traccia del fallo, di ciò che cade, che manca alla completezza d’un significante che sarebbe incollato alla sua significazione. È il (-ϕ) che non cessa d’essere necessario al centro di piccolo a. Penso ricordiate tutti a questo proposito la lezione nella quale Lacan parla del prepuzio, delle bizzarrie della circoncisione nella Bibbia. È di questo che si tratta: l’oggetto perduto, il pezzetto di carne, se volete la libbra di carne del riferimento che Lacan fa a Shakespeare, mantiene dentro di sé l’anima del corpo dal quale è staccato.

Verso la metà di quest’ultima lezione, alla fine di pagina 488 della versione ALI in francese, è scritto: “è all’oggetto che è appesa la prima forma di desiderio in quanto noi lo elaboriamo come desiderio di separazione.” Ora, il “noi” è scritto in corsivo. Non conosco la ragione per la quale il gruppo di lavoro coordinato da Jean-Paul Beaumont ha scelto questa grafia, ma trovo che sia una scelta felice. “Noi” siamo noi, gli adulti, noi diventati adulti, noi passati attraverso l’esperienza della castrazione, noi che elaboriamo come desiderio di separazione la prima forma di desiderio appesa all’oggetto. In altre parole, l’oggetto non può concepirsi al di fuori del sistema linguistico, linguisterico se preferite, nel quale è inserito dalla funzione fallica e dalle sue avventure soggettive.

Non vorrei andare troppo veloce ma è per questo che l’angoscia, per come Lacan l’articola in questo seminario, è angoscia di castrazione. Riferitevi alla pagina 491 dove è detto che “ogni funzione del piccolo a si riferisce soltanto alla beanza centrale che separa, a livello sessuale, il desiderio dal luogo del godimento.” E, alla pagina seguente, “…angoscia di castrazione, diciamo noi, ma perché non desiderio di castrazione?” C’è, prosegue Lacan, “una mancanza centrale che separa il desiderio dal godimento” e a questa mancanza è anche sospeso un desiderio “la cui minaccia per ciascuno non è rappresentata che dal suo riconoscimento.” Eccolo, l’Edipo! Quello che vuol violare la proibizione concernente la congiunzione del piccolo a, qui (-ϕ), e dell’angoscia. Lo ripeto: piccolo a, qui (-ϕ); dunque il (-ϕ) necessario alla costruzione del piccolo a, il (-ϕ) che è il punto buco necessario alla costruzione dell’oggetto in quanto capace di innescare un processo di soggettivazione. Edipo è colui che vuole vedere no? Colui, ricorda Lacan “che vuol vedere ciò che c’è al di là della soddisfazione del proprio desiderio, che quanto a lei, alla soddisfazione, è raggiunta.” Jean-Paul Beaumont lo ricordava durante il seminario d’inverno dicendo che, io almeno l’ho capita così: con la castrazione si situa la mancanza nel linguaggio. In altre parole, il godimento oggettuale, esattamente come il desiderio, necessita di un riferimento fallico.

Non è per niente che l’anno successivo Lacan pensava di proseguire il suo Seminario con “I nomi del padre”, di cui trovate una specie di anticipazione alla fine del seminario. Ma, per restare al seminario su L’angoscia, Lacan aggiunge, anticipa qualcosa: Un padre non è causa sui, non è un motore immobile, come avviene invece nel mito religioso o in quello filosofico. Un padre, il padre fondatore del mito freudiano, è un soggetto che è andato abbastanza lontano nella realizzazione
del suo desiderio per reintegrarlo alla sua causa, a ciò che vi è di irriducibile nella funzione del piccolo a.

La sorpresa è che questo padre non è neanche lui libero: “Non c’è alcun soggetto umano che non debba porsi in quanto oggetto, come un oggetto finito, al quale sono appesi dei desideri finiti che hanno l’aria di infinitizzarsi solo in quanto rifuggono l’uno dall’altro, sempre più distanti dal loro centro comune, portando così il soggetto sempre più lontano dalla sua autentica realizzazione.” Come tutti e come tutte, un padre è lasciato in balìa della metonimia infinita e ludica della catena
significante.

Da qui la questione del transfert, della veste agalmatica dell’oggetto, e del desiderio dell’analista, ovvero del desiderio di qualcuno che possa offrire alla questione del concetto dell’angoscia, non una via d’uscita nel registro dell’ideale, bensì una garanzia reale.

 

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