Amalia Mele – Identificazione e fine analisi

Amalia Mele

Identificazione e fine analisi

Tra le questioni cruciali agitate da quella che Jacques Lacan definisce la psicoanalisi in intensione vi è la fine dell’analisi. La fine dell’analisi è un costrutto sottoposto, a più riprese, a ripensamenti e a rielaborazioni. All’inizio della sua ricerca Lacan è solito riferirsi a coordinate di tipo filosofico. Il concetto di «riconoscimento», imputabile alla coppia Hegel/Kojève, diventa centrale in quella che si definisce la fine dell’analisi attraverso il desiderio, vale a dire la sua interpretazione e il suo riconoscimento. Dell’assunzione dell’«essere per la morte» di heideggeriana memoria, sembra servirsi il Lacan di un testo, dal titolo già in qualche modo ironico, come Varianti della cura tipo (1953)[1]. Si tratta di uno scritto che pone la questione di cosa accada all’io, termine ideale per eccellenza, nell’analisi. Lacan annuncia in questo testo la fine dell’io per l’analista al termine «di una lunga ascesi soggettiva», al punto che, all’identificazione alienante all’altro ritrovata in analisi attraverso una regressione immaginaria, risponderebbe come effetto della cura analitica la «soggettivazione della propria morte».

Varianti della cura tipo, oltre a contenere la celebre tautologia «una psicoanalisi, tipo o no, è la cura che ci si aspetta da uno psicoanalista», è un testo che presenta le prime caute asserzioni di Lacan sul sintomo e il suo destino. Lacan parla difatti di «guarigione come soprappiù di beneficio della cura psicoanalitica», e dell’analista come colui che «si guarda da qualsiasi abuso del desiderio di guarire». È questa una concezione della cura già tranchant rispetto all’epoca, e che pone dei limiti alla tesi degli anni ‘50 della fine dell’analisi come riduzione dell’immaginario.

Negli anni successivi le concezioni di fine analisi sembrano implicare il rapporto con l’esperienza clinica. Lacan ha molto insistito, in un certo periodo, sulla traversata del fantasma come fine ideale dell’analisi. Una traversata che non è artificio, e che non è affatto rara, può intendersi anche come traversata sul piano delle identificazioni. È ciò di cui Lacan parla già in un testo come la Nota sulla relazione di Daniel Lagache[2], dove in gioco è la separazione dell’oggetto a dall’immagine del corpo i(a) e la sua restituzione al campo dell’Altro. In questo testo, a proposito della depersonalizzazione che interviene quando l’analizzante perde la certezza di ciò che credeva di essere, nel prendere la misura di ciò che il suo essere deve al discorso dell’Altro, si comprende che Lacan intende questa depersonalizzazione, per l’appunto, come una disidentificazione, come una perdita di essere: «Gli effetti di depersonalizzazione constatati nell’analisi sotto aspetti variamente distinti, vanno considerati meno come segni di limite che come segni di superamento»[3]. Il soggetto, dunque, non si reperirebbe più a partire da quel tratto dell’Ideale dell’Io, in quel punto cioè di identificazione dove si vede amabile perché visto dall’Altro, amato (e solo narcisisticamente amante in quanto amato), soggetto desiderabile ma mai desiderante.

Parlando di depersonalizzazione nella Nota alla relazione di Daniel Lagache, Lacan si situa già allora in una direzione di marcia differente rispetto a Balint, che ha concepito la fine dell’analisi come identificazione all’io dell’analista, un approdo della cura analitica che Lacan descrive come uno stato di elazione in cui il paziente scambierebbe il suo io con quello dell’analista.

L’analisi già a questa latitudine non è più il primato del simbolico sull’immaginario: senza l’incompletezza del simbolico non c’è fantasma. Senza             S(A)     non c’è .

Lacan ritornerà su questo tema nel S XI invocando una topologia per la traversata del piano delle identificazioni. Piano che è un piano di sutura che colma la beanza tra l’Ideale dell’Io che fa essere e l’oggetto a che condensa la mancanza a essere: «È in quanto il desiderio dell’analista, che resta una x, tende nel senso esattamente contrario all’identificazione, che è possibile il superamento del piano dell’identificazione, con la mediazione della separazione del soggetto nell’esperienza. L’esperienza del soggetto è così ricondotta al piano in cui può presentificarsi, della realtà dell’inconscio, la pulsione[4]».

Potrà sembrare strano introdurre, a questo punto del discorso, le teorizzazioni dell’ultimo Lacan sulla fine dell’analisi.  Negli anni ’70 la fine dell’analisi è ripensata da Lacan nell’ordine di un’identificazione, un’identificazione al sintomo per la precisione[5]. Forse l’invariante comune a questi momenti così distanti e differenti, è sempre stata per Lacan la necessità di annodare la fine dell’analisi con un effetto d’essere.

L’identificazione al sintomo, come terzo modo di intendere la fine dell’analisi, si aggiunge alle prime due formulazioni relative a tale questione: la prima tende verso l’interpretazione dei sintomi considerati come formazioni dell’inconscio, la seconda convoca la traversata del fantasma[6]. Vi è inoltre un’altra modalità di fine-analisi, che attiene però alla cosiddetta psicoanalisi in estensione, e che fa di Lacan l’unico psicanalista che colloca la fine dell’analisi al cuore del suo insegnamento, legandola clinicamente e istituzionalmente alla formazione degli analisti nella procedura della passe.

Nella prima lezione del Seminario L’insu que sait de l’une bévue s’aile à mourre (1976)[7], Lacan chiarisce come intendere lo strano accostamento tra identificazione e sintomo.

Esamina in primo luogo l’identificazione legata alla scelta oggettuale nella formazione dei sintomi nevrotici, così come la rubrica Freud nel paragrafo “L’identificazione” di Psicologia delle masse e analisi dell’io. La prima, identificazione edipica alla figura paterna, riprende la teoria freudiana della trasformazione dell’amore in identificazione, la seconda è l’identificazione isterica al desiderio dell’altro, e infine la terza è l’identificazione al tratto unario.

Secondariamente, continuando il suo discorso, Lacan esclude che l’identificazione sia qui intesa alla maniera di Balint, come identificazione all’io dell’analista, né al suo superio, come ebbe modo di constatare lo psicoanalista di origine scozzese Edward Glover. E infine esclude che l’identificazione possa riguardare l’inconscio. «A cosa ci si identifica alla fine dell’analisi? Ci si identificherebbe al proprio inconscio? È ciò che non credo. Non lo credo perché l’inconscio resta [...] L’Altro. È di questo Altro con una grande A che si tratta nell’inconscio[8]».

Non è nell’intenzione di Lacan di intendere tuttavia l’identificazione al sintomo come passione, amore per il sintomo. È difatti nel commento a un caso clinico di nevrosi ossessiva femminile, affrontato da Maurice Bouvet e riportato nel Seminario V su Le Formazioni dell’inconscio (1957-1958), molto tempo prima dunque di questo costrutto dell’identificazione al sintomo che è degli anni 70, che Lacan mostra che la conduzione della cura da parte di Bouvet ha spinto la paziente ad amare le sue ossessioni. Su questo punto Bouvet finisce per accordarsi perfettamente con Balint, perché gli effetti soggettivi dell’amore, per il sintomo, somigliano a quelli dell’identificazione all’analista. Così Lacan può dire verso la fine del S V: «Vi si trova sicuramente quello stile di effusione narcisistica di cui alcuni hanno messo in evidenza il fenomeno alla fine dell’analisi[9]», distinguendo così nettamente già allora l’identificazione al sintomo dall’amore per il sintomo.

Nel modo di intendere il sintomo, Lacan era all’inizio del suo insegnamento in fondo molto vicino a Freud. Questo era significante di un significato nascosto (Funzione e campo della parola e del linguaggio), metafora (L’istanza della lettera), significato dell’Altro (Formazioni dell’inconscio). In questa prima fase prevaleva una concezione del sintomo ancora legata al simbolico, al piano del linguaggio, del significante, del messaggio, e pertanto restava dominante la dimensione di domanda e di desiderio.

La concezione del sintomo come messaggio negli anni ‘50, affermata in special modo in testi come Funzione e campo della parola e del linguaggio e Varianti della cura tipo, è quella del sintomo come incidenza inconscia di un significante enigmatico rimosso, tesi che riprende in qualche modo l’ipotesi freudiana del sintomo come sostituzione, ma che lascia a lato la questione del soddisfacimento. Lacan si allinea dunque, in questi testi, a quell’ottimismo freudiano che concerne l’idea che il sintomo possa cancellarsi e il desiderio nominarsi. Questa concezione è enunciata in FCPL: «il sintomo si risolve tutto intero in un’analisi di linguaggio», concezione che si situa interamente nel registro del simbolico.

Dalla concezione che «il sintomo si risolva tutto intero in un’analisi del linguaggio», Lacan si allontanerà progressivamente. Tale tragitto sfocerà nella presa d’atto dell’irriducibilità dell’immaginario; tale irriducibilità ha a che vedere con il simbolico, perché anche il significante è in qualche modo un sembiante. Lacan ironizzerà perfino sul titolo del Discorso di Roma, che diventa nell’Etourdit[10] «finzione e canto della parola e del linguaggio».

Giro di boa del suo pensiero sarà l’introduzione nel 1964 di quella nozione di valore capitale per la sua teoria che è la nozione di reale. Si può pensare che in questa ultima fase della sua ricerca Lacan stia sottoponendo alla prova della topologia concetti freudiani come  sintomo e identificazione. Prima afferma che il sintomo viene dal reale, è il reale, per concludere infine nel 1975 che è ciò che le persone hanno di più reale. Avendo poco ha che fare con l’immaginario, il sintomo non è una verità che riguarda la significazione ma è un effetto di struttura del soggetto. In tal modo non può essere dissociato dagli altri anelli del nodo borromeo, simbolico, immaginario, reale. È proprio in questo suo riferirsi a un reale e non a un ideale che l’etica della psicanalisi trova la sua ragion d’essere.

Se vi è un’invariante del pensiero di Lacan, questa è che il parlessere parla con il suo corpo vivente ed è l’incarnazione sintomatica dell’interazione del significante e del corpo, interazione che produce una marca che farà sintomo. Questa nuova coppia parlessere-sintomo è forse il sintagma di cui abbiamo bisogno per approcciare la fine dell’analisi in termini meno ideali e in ogni caso più realistici.

Il sintomo diviene non più enigma da decifrare all’infinito ma cifratura di ciò che fa esistere il parlessere. Questa concezione del sintomo come quarto anello è introdotta anche dal cambiamento ortografico che farà sì che, a partire dal Seminario su Joyce[11] del 1975, il sympthome diventi un sinthome. Termine che include da un lato l’esistenza di un nome del padre, ma non necessariamente del Nome del Padre, e dall’altro prende il suo senso dall’essere messo in relazione con la questione del rapporto sessuale come impasse di struttura, questione che è solitamente formulata con l’espressione il n’y a pas rapport sexuelle.

Parlare d’identificazione al sintomo è dunque un ossimoro. L’identificazione si riferisce all’Altro e crea il simile, il sintomo s’inscrive in una singolarità di jouissance e crea la differenza. L’identificazione al sintomo è però coerente con la necessità di annodare la fine dell’analisi con un effetto d’essere. Si tratterebbe di produrre un soggetto determinato non più attraverso la via dell’Altro. Lacan sta separando, in questa fase, identificazione da introiezione, identificazione da incorporazione, introducendo una nuova forma d’identificazione che consiste nel riconoscersi, «s’y reconnaître».

Se facciamo nuovamente un passo indietro sino al celebre Stadio dello specchio (1949)[12], troviamo la formula «tu sei questo», confine estatico secondo Lacan che indica sia il punto limite dove l’analisi può accompagnare il soggetto, sia il momento in cui comincia il vero viaggio. La parola «estatico» vuole significare che è piuttosto la risposta irrappresentabile dell’essere che ci si aspetta, poiché l’identificazione perpetua l’Altro e dunque la mascherata e la menzogna. La formula «tu sei questo» ricompare inoltre nel Seminario degli anni ’54-‘55 sull’Io, nella lezione L’analisi del sogno dell’iniezione ad Irma[13], testo dove per la prima volta Lacan, introducendo descrittivamente la nozione di reale, parla a proposito della visione della gola di Irma di «identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo – Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe».

L’identificazione al sintomo dunque collocata all’altro estremo dell’insegnamento di Lacan, designa una fine possibile dell’analisi che è quella di giungere a un “io sono” che non sia del sembiante.

Sempre in questa direzione di senso, in Varianti della cura tipo (1953), Lacan aveva definito la fine dell’analisi come le parole finali pronunciate dall’analizzante nelle quali quest’ultimo «riconosce la legge del suo essere». Possiamo considerare questi testi come antecedenti al Lacan estremo dell’identificazione al sintomo?

Se l’analisi non risponde all’ideale della soppressione del sintomo come in medicina o in psicoterapia, si declinerà piuttosto come mutazione di sapere, affinché la conoscenza inclusa nel sintomo sia decifrata e il desiderio si compia, non già nella realtà come per Freud, ma nel «saperci fare» (proposizione in cui si percepisce in Lacan un rinvio metaforico all’arte), e dunque in un atto che produca del nuovo.

Il «tu sei questo» che discende da un’analisi indica il resto di sintomo che non è resto di sofferenza di cui sbarazzarsi, ma supporto insuperabile che implica l’apertura alla contingenza.

Se per la psicanalisi non è possibile articolare nulla nel linguaggio che non implichi la castrazione, l’identificazione al sintomo suppone che il soggetto abbia smesso di attendere, nel compimento dei puntini sospensivi del proprio discorso, la comparsa di un termine complementare. Si potrebbe guardare pertanto all’identificazione al sintomo come a una decisione per il punto definitivo del silenzio.

Così l’identificazione al sintomo rappresenta insieme al pas-tout[14] una faglia a cui può condurre l’analisi, una faglia che consiste necessariamente in punti di silenzio.

 

Napoli, ottobre 2009


[1] Jacques Lacan, Variantes de la cure-type (1953), in Écrits (1966), Paris, Seuil, 1999, pp.322-361.

[2] Jacques Lacan, Remarque sur le rapport de Daniel Lagache: «Psychanalyse et structure de la personnalité» in Écrits (1966), Paris, Seuil, 1999, pp. 124-162.

[3] Ivi, pag.158.

[4]Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Einaudi, Torino, 1979, pag. 278.

[5] Cfr. Sidi Askofaré, L’identification au sinthome, in Essaim 18 (2007) La passe: état des lieux et enjeux, pp. 61-76.

 

[6]Cfr. Erik Porge, Identification au symptôme en fin d’analyse, in Cahiers pour une école 18/19 (2009) …Psychanalystes, autre part, pp .51-61.

[7]Jacques Lacan, L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre, Séminaire 1976-1977, Édition de l’Association Lacanienne Internationale, Pubblication hors commerce.

[8] Ivi, pag. 11.

[9]Jacques Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. 1957-1958, Einaudi, Torino, 2004, pag. 518.

[10] Jacques Lacan, L’Etourdit in Scilicet, n.4, Le Seuil, Paris, 1973, pp. 5-52.

[11] Jacques Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo. 1975-1976, Astrolabio, Roma, 2006.

[12] Jacques Lacan, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je (1949), in Écrits (1966), Paris, Seuil, 1999.

[13] Jacques Lacan, Il Seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 1954-1953, Einaudi, Torino, 1991, pp.189-220.

[14] Cfr. Colette Soler, Ce que Lacan disait des femmes, Éditions du Champ lacanien, Paris, 1997.

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