Patrizia Piunti – Sul problema della schizofrenia
Patrizia Piunti
Sul problema della schizofrenia
E’ ancora possibile parlare di schizofrenia al giorno d’oggi senza necessariamente rimanere imbrigliati solo nelle classificazioni diagnostiche del D.S.M? E’ tuttora possibile individuare delle forme cliniche come quelle descritte da Kraepelin o da Duprè e rivisitarle alla luce della psicanalisi lacaniana ? Nella società attuale in cui si assiste sempre di più al declino del Nome del Padre o comunque qualcosa che si potrebbe descrivere come una sempre più frequente “forclusione della castrazione” (come la definisce J. Marie Forget in “L’altro e la psicosi”), si potrebbe parlare di una schizofrenia moderna o della modernità ? Perché non di paranoia ? Ma l’una esclude l’altra ?
Lacan sin dalla sua tesi di laurea si è interessato soprattutto alla paranoia, facendone un punto cardine della psicosi in generale, ma soprattutto della sua teoria della strutturazione dell’io e della personalità, fino ad arrivare all’affermazione che la paranoia e la personalità sono la stessa cosa. Nel seminario III sulle “psicosi” emerge più chiaramente il suo riferimento sia agli psichiatri classici sia a Freud, in particolare nella sua rilettura del testo del presidente Schreber. In una rilettura di questo seminario, nel suo libro “Passioni dell’oggetto” M. Czermak vi individua una distinzione tra la schizofrenia , in cui il “Simbolico è Reale”( come sottolinea ancora Lacan negli “Scritti”) ed un altro tipo di psicosi, ossia la paranoia, in cui invece prevale la dimensione egoica dell’immaginario, per cui lo stadio dello specchio ha permesso di avviare l’alienazione speculare, senza però simbolizzare adeguatamente il rapporto con il grande Altro. Czermak (in Patronymies) scrive: “nelle paranoia non c’è il significante della mancanza nel grande Altro”. A questi due tipi di psicosi l’autore ne aggiunge un terzo in cui “la dimensione dell’io sarebbe veramente assente”, per cui si tratterebbe di psicosi “fatte di un immaginario senza io”, ossia quello che la psichiatria francese ha chiamato deliri di immaginazione, ovvero le parafrenie confabulatorie della psichiatria tedesca.
Troviamo quindi attraverso questo autore un più esplicito collegamento con le categorie psichiatriche di fine secolo XIX, in particolare con la definizione tuttora in uso di schizofrenia.
Così Kraepelin nel 1893 coniava il termine di dementia praecox in quanto ne individuava un’evoluzione progressiva verso uno stato di indebolimento psichico. Ne individuò tre diverse sindromi che considerava varianti di una stessa malattia, cioè la catatonia, l’ebefrenia e la demenza paranoide. Pochi anni più tardi (nel 1911) sarà E. Breuler ad introdurre il termine “schizofrenia” alludendo così ad un meccanismo di “scissione” della mente o ad una “perdita delle associazioni mentali” e distinguendo dei sintomi primari ( disturbi delle associazioni del pensiero, autismo, ambivalenza, affettività inappropriata) dai sintomi secondari (allucinazioni, deliri, disturbi del linguaggio, ecc.) che potevano anche non essere presenti per fare diagnosi, da cui l’introduzione della “schizofrenia simplex” in cui non vi erano allucinazioni o deliri. Si tratta quindi di due modi diversi di concepire la psicopatologia, l’uno legato principalmente all’evoluzione di un processo morboso, l’altro alle sue manifestazioni cliniche. Nel corso del tempo gli psichiatri che si sono occupati di questo tipo di psicosi hanno tentato di integrare questi due punti di vista ed hanno comunque prodotto una serie di osservazioni sulle caratteristiche ritenute fondamentali per la diagnosi di schizofrenia.
Come si può leggere nel trattato di Henri Ey, il sistema delirante dello schizofrenico assume delle caratteristiche particolari che sembrano differenziarlo da quello sistematizzato del paranoico. Si tratta di un “sistema delirante primordiale”che risulta da “una profonda modificazione dell’esperienza sensibile” o comunque in “un’estraneità dell’esistenza” (H. Ey) . Lo stesso H. Ey aggiunge: “il delirio qui è l’autismo, la vita immaginaria che tutti i clinici considerano come la base della schizofrenia”. Si tratta di “un delirio senza progressi discorsivi, …che rimane, malgrado le sue complicazioni labirintiche, cristallizzato e stereotipato nei suoi frammenti sparsi”, ossia di “un delirio incomunicabile”, da cui la nozione di autismo.
Sembra quindi che i clinici si soffermino soprattutto sulle caratteristiche di frammentarietà del discorso delirante, senza quelle caratteristiche di “ordine e chiarezza” che permea il delirio del paranoico.
La nosografia kraepeliniana, di cui si è servito anche Lacan nel riconoscimento di forme cliniche diverse di psicosi, può essere rinvenuta anche nella categorie più recenti del DSM, tanto da inglobarvi quasi completamente anche la paranoia che invece aveva mantenuto una sua autonomia clinica nelle prime versioni dello stesso DSM, come del resto troviamo nella scuola psichiatrica francese.
A differenza di tutta questa lunga tradizione Lacan farà quindi della paranoia un nucleo basilare della psicosi in genere, soffermandosi quindi sugli aspetti psicopatologici strutturali più che sull’evoluzione clinica o, ancor meno, sulla sua psicogenesi. E’ anche per questo che non troviamo molti riferimenti alla schizofrenia o alla psicosi maniaco depressiva, anche se sulla sua scia alcuni autori, come Czermak, hanno apportato molti contributi interessanti anche su questi temi.
La riflessione di Lacan , incentrata principalmente sulla teoria della forclusione del Nome del Padre all’origine della psicosi, nel corso del tempo si arricchirà di ulteriori contributi in cui, oltre ai tre registri di Reale, Simbolico e Immaginario si dovrà tener conto del rapporto con l’oggetto piccolo a, con il grande A e con tutte le possibili articolazioni topologiche. In ogni caso ritorna sempre l’assunto iniziale che l’ha indotto ad interessarsi di questa clinica, ossia che la psicosi è un fenomeno di linguaggio, come già dall’inizio De Clérambault aveva evidenziato nell’individuare l’automatismo mentale come la struttura verbale della paranoia e della psicosi in genere. Altro punto strutturale importante è legato al tema dell’allucinazione di cui Lacan fa il fenomeno elementare paradigmatico. Sottolinea inoltre , sulla scia di Kraepelin, che il delirio e i fenomeni elementari si differenziano, ma contemporaneamente si collegano l’uno all’altro in quanto “obbediscono alla stessa forza strutturante”. Il carattere “elementare” quindi risulta quello del significante che non rinvia ad altri significanti, ma che diviene un reale che conferisce una significazione del tutto personale per il paranoico. Un altro punto importante riguarda la questione dell’io e della personalità, per cui Lacan precisa ( seminario III) che “a differenza della schizofrenia, la paranoia è sempre in relazione con l’alienazione immaginaria dell’io”. Ciò che la caratterizza e la distingue dalla cosiddetta “paranoia comune” del soggetto nevrotico confrontato anch’egli con la sua duplicità immaginaria, è la sua relazione al grande Altro. La sua esclusione riduce il discorso paranoico ad un monologo, in cui “risuona il suo stesso messaggio” poiché la significazione che gli deriva è “detta realmente dal piccolo altro”, così come quei”bravi uomini mal combinati “ cui è dato di imbattersi al presidente Schreber.
Per quanto riguarda la tematica della schizofrenia, sempre nei suoi aspetti psicopatologici, possiamo considerare ancora il discorso sull’immagine del corpo, in particolare in riferimento alla sua “frammentazione” preliminare allo stadio dello specchio. Torniamo quindi alla funzione della rappresentazione dell’immagine ed all’istanza dell’io indicata come i (a).
A questo proposito , riprendendo il testo di Czermak “Passioni dell’oggetto”, relativamente ad un caso di “delirio di immaginazione” vi troviamo l’ipotesi di una “malattia della mentalità” , di un Immaginario senza io che si contrappone alla personalità , “all’io paranoico, quello che dà prova della sua consistenza e della sua serietà”. Vi si legge ancora : “la nostra paziente non delira, non costruisce niente…abbiamo a che fare con una specie di extraterritorialità in rapporto alla parola…non parla mai del suo stato per esperienza personale, ma per eco e sdoppiamento”
Vi troviamo quindi un immaginario “senza io” come, secondo Lacan, avviene anche nel caso della schizofrenia, che è il tema del nostro discorso odierno.
La caratteristica di “moderna” che le è stata data deriva principalmente da alcune osservazioni cliniche recenti relativamente a casi di pazienti che potevano essere confuse con altri tipi di strutture dell’area delle psicopatie. Su un caso, in particolare, che mi è capitato di seguire in ambito istituzionale la diagnosi di schizofrenia, pur con qualche incertezza iniziale, è stata oggetto di un accordo pressoché unanime da parte di psichiatri di diverso orientamento e collocazione.
Si trattava di una ragazza che era arrivata ad un punto estremo del suo percorso di deriva sociale, pur non partendo da situazioni socio familiari particolarmente svantaggiate. Si potrebbe anzi dire che il suo ambiente d’origine l’aveva agevolata in ogni suo desiderio, almeno per quelli che potevano sembrare tali.
Senza voler entrare particolarmente in merito alle caratteristiche del caso, alcuni significanti emersi dal primo colloquio con lei, (“qui sto bene perché ho un letto, un pasto, mi posso fare la doccia…ma voi lì a…. avete un posto d’accoglienza ?) mi hanno permesso di agganciarmi al suo discorso al di là dei fenomeni elementari o dei deliri molto frammentari da cui era pervasa. La sua apparenza era di una persona alla deriva sociale, molto probabilmente dedita anche all’abuso di sostanze stupefacenti, ma si trattava solo di un abito preso in prestito dalle sue ultime frequentazioni abituali. La sua era un’immagine senza consistenza, in totale balìa di un aspetto, il più emarginato, del grande Altro sociale in cui si era trovata immersa nel suo “galleggiare alla deriva”, come scrive Czermak a proposito di una paziente con “delirio di immaginazione” .
Nel suo caso forse anche la difficoltà ad entrare in una relazione di specularità e quindi di organizzare anche un’ideazione paranoidea, magari con carattere di persecutorietà come avviene spesso nel paranoico, ha permesso di stabilire un transfert che, per quanto inizialmente difficile e precario, ha favorito l’evoluzione della sua situazione clinica. Ma dove reperire una “modernità” in tutto questo? Forse nel mascheramento del quadro clinico dato dall’uso di sostanze stupefacenti? O piuttosto dall’andamento del caso che non è stato riconosciuto come tale da nessuno, soprattutto dalla famiglia che vi riconosceva, invece, un legittimo atteggiamento di anticonformismo e di affermazione di autonomia? Senza entrare in merito a tutto questo che potrebbe portarci lontano dalla questione iniziale un aspetto peculiare di questo caso risulta dalla sua difficoltà a reperire un “luogo” nel sociale che lo rappresenti, proprio in un mondo come il nostro in cui il frequente prevalere di un sentimento di isolamento e di sradicamento comporta, al contrario, la tendenza a sostenere le differenze etniche e culturali, fino agli scontri più efferati. Si potrebbe forse dire, come sostiene Melman, che la paranoia, da questo punto di vista, rappresenta quasi un ancoraggio per una società come la nostra ? Penso che la questione possa rimanere aperta ad ulteriori elaborazioni.