Jacques Lacan, psicanalista (1901-1981)

La nouveauté que la psychanalyse révèle, c’est un savoir insu à lui-même
La novità che la psicanalisi rivela è un sapere insaputo a se stesso
J. Lacan, 4 novembre 1971

Trent’anni or sono, il 9 settembre del 1981, si spegneva nel silenzio in cui si era lasciato sprofondare, complice l’afasia motrice, lo psicanalista francese Jacques Lacan (Parigi 1901-1981). Il suo nome rimarrà per sempre legato all’originale e rigorosa rilettura della scoperta freudiana dell’Inconscio, che lo ha portato a innovare poderosamente la clinica. Il prezzo da lui pagato è stato altissimo: la messa al bando dalla comunità psicanalitica, così come molti secoli prima (1656) a causa di un’analoga spinta critica l’ebreo Baruch Spinoza era stato messo al bando dalla propria comunità religiosa.
La “colpa” di Lacan è stata quella di privilegiare l’ascolto degli analizzanti rispetto ai dogmi del sapere analitico, lasciandosi – come Freud – insegnare da quelli e avendo l’audacia di avanzarsi nei territori della follia sino a scoprire che all’origine dei funzionamenti del paranoico troviamo gli stessi meccanismi di quelli della persona c.d. “sana”.
Personaggio controverso, di straordinaria ricchezza e complessità, J. Lacan ha proceduto sulla strada del proprio impetuoso desiderio scandalizzando e turbando, divenendo per un verso oggetto di odio degli adepti delle grandi istituzioni analitiche i quali si sentivano messi in discussione dalle sue acquisizioni teoriche, suscitando per un altro l’amore, sconfinante nella venerazione, dei suoi allievi – amore che, a distanza di trent’anni dalla sua scomparsa, si mantiene mirabilmente integro. La decisione di non arretrare sulla strada del proprio desiderio è certamente una delle ragioni della dolorosa decisione da lui presa nel 1980, pur nell’imminenza della propria morte, di dissolvere la sua Scuola, divenuta oramai luogo di conflitti insanabili. Quella decisione, rimasta in parte enigmatica, continua ad alimentare funeste lacerazioni fra quanti si riconoscono oggi nella sua filiazione.
Ma il vero scandalo rappresentato da J. Lacan è stato più propriamente quello di denunciare che, nell’Inconscio, non c’è rapporto sessuale, che ciascuno di noi deve deporre la propria aspirazione a fare Uno con l’Altro. Che, il nostro desiderio è sempre desiderio dell’Altro e che quest’Altro a cui incessantemente ci rivolgiamo non risponde mai alle nostre domande, costituisce un inquietante luogo vuoto. Che l’oggetto che muove il nostro desiderio è costituito da una mancanza. Che al centro del nostro Sapere inconscio c’è una faglia irriducibile, la quale ci espone al confronto con un godimento mortifero. Che il Nome-del-Padre, che ha strutturato tutta la cultura di cui siamo il prodotto, è in inarrestabile declino. Che il sintomo ci è indispensabile per vivere… In una parola: che l’uomo è solo davanti alla propria responsabilità di soggetto desiderante, che la ragione è impotente e che lo psicanalista – lungi dall’essere il Dio onnipotente del fiat lux – è soltanto un debole ed effimero fuoco fatuo, destinato a estinguersi nel momento stesso in cui sembrava accendersi.
Quanto basta per minare alle fondamenta tutte le certezze della civiltà occidentale contemporanea, persa nella folle ebbrezza di padroneggiare il Reale!
Con una vasta serie di pubblicazioni e di inziative ad ampio raggio, la Francia si accinge in questi giorni a celebrare solennemente l’anniversario della sua morte. J. Lacan è stato infatti a lungo protagonista della scena culturale nel Novecento europeo, assieme a personalità del calibro di F. De Saussure, C. Lévi-Strauss, A. Koyré, A. Kojève, L. Althusser, M. Heidegger, R. Jakobson e altri ancora. Il suo grande sforzo di descrizione clinica si è sistematicamente e programmaticamente nutrito degli apporti, oltre che della psichiatria e della psicanalisi ortodosse, della filosofia, della filologia, della storia dell’arte, della linguistica, della letteratura, della matematica: cioè di tutti gli altri discorsi nei quali l’uomo del nostro tempo è preso. E tutto questo mai in modo succube, bensì sempre e solo in funzione di ciò che il clinico coglieva nell’ascolto dei pazienti (e con ciò stesso ad ogni nuovo tornante perpetuando quella condizione di eretico necessariamente da condannare da parte dei rappresentanti del sapere accademico – condizione che ne ha indelebilmente, e altrettanto fruttuosamente, segnato la prassi).
Lacan ha avuto un rapporto molto forte con l’Italia. Nel nostro paese egli è più volte venuto e ha ammirato la carnalità della pittura barocca, il misticismo della statuaria berniniana, la tracotante possanza delle nostre cupole. In Italia ha pronunciato discorsi fondativi delle tappe maggiori del suo percorso teorico: da Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi (1953) a La terza (1974). Agli psicanalisti italiani si è rivolto, nel momento di fondazione da noi del primo gruppo che a lui si è richiamato, con un manifesto (Lettera agli italiani) in cui risuona un monito specifico: per essere analisti bisogna lavorare molto, accettando di sottoporre il proprio percorso di analista alla procedura della passe, sforzandosi di dar conto di ciò che in noi ha prodotto il desiderio di analista e dando testimonianza del nostro rapporto con l’oggetto a in tutte le sue molteplici funzioni. Siffatto monito va al di là della particolare congiuntura in cui venne lanciato e continua a investire quanti decidano di assumersi le loro responsabilità nell’effettuazione del proprio atto. In questo senso, il monito attende ancora di essere adeguatamente analizzato e interpretato dalla comunità analitica internazionale. Quello stesso monito risuona oggi, con rinnovata forza, nell’invito rivolto agli psicanalisti italiani da Ch. Melman, fondatore dell’Association Lacanienne Internationale, a individuare e lavorare sui significanti del Reale italiano all’interno della comune impresa di un Dizionario della psicanalisi da lui diretto e in cui trovino spazio gli specifici realia della nostra cultura. Solo nella riscoperta dei nostri antecedenti, (a cominciare dall’apporto dato alla clinica da figure come E. Weiss e E. Tanzi e in diretta contiguità con la parola seminata a partire dagli anni ’70 in Italia da M. Drazien, C. Gilardi, P. Carola e, più recentemente, da M. Fiumanò) potremo sperare di mettere a segno il nostro particolare ritorno a Freud, accedendo a un nuovo modo di scrivere il rapporto con il Reale e con noi stessi.

In occasione dell’anniversario della morte di J. Lacan, la Casa Editrice “Editori Internazionali Riuniti” (Roma 2011) pubblica in lingua francese un libro-intervista Mes soirées chez Lacan in cui allievi diretti (Ch. Melman, M. Czermak, M. Drazien) ed eminenti psicanalisti e psichiatri lacaniani di seconda generazione (Cl. Landman, J.-J. Tyszler, M.-Ch. Cadeau) parlano del loro incontro con Lacan e con la psicanalisi lacaniana. Il libro, a cura dei membri dell’Association Lacanienne Internationale C. Fanelli, J. Jerkov e D. Sainte Fare Garnot, si indirizza a psicanalisti e non psicanalisti nell’intento di fornire uno strumento agile e piano di riflessione su concetti maggiori della clinica psicanalitica. L’edizione in lingua italiana, corredata di un apparato di note, è prevista per la prima metà del 2012.

Janja Jerkov

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