Virginia Zullo – Da una lingua all’altra – un film di Nurith Aviv

Da una lingua all’altra – un film di Nurith Aviv

di Virginia Zullo

 

In fondo al crepaccio dei tempi,

(…) attende, un cristallo di respiro,

la tua immutabile testimonianza”

Paul Celan

 

Il film di Nurith Aviv è un viaggio attraverso l’erranza della lingua dove, a partire dalla propria storia personale, poeti scrittori e musicisti testimoniano del loro rapporto intimo e personale di fronte al passaggio dalla lingua materna ad  un’altra l’ebraico. Cosa ne è del materno della lingua che viene in qualche modo preservato o rigettato nel rapporto del soggetto con una lingua altra, appresa successivamente ? Il passaggio da una lingua all’altra è ottenuto al prezzo di una perdita? A queste domande , e non solo, dà  risposta il film, bellissimo, di Nurith Aviv.

Come la regista in apertura del film mi giocherò subito la carta fondamentale: nella lingua tedesca, parola si dice wort e luogo si dice ort, un’assonanza  che lega luogo a parola, una sottigliezza che nessuna altra lingua, mi pare, presenti.

 

Trovai il riferimento a quest’assonanza, molti anni fa, in un saggio dedicato alla poesia  di Paul Celan,  poeta ebreo come la maggior parte dei “testimoni” del film in questione. L’autrice  del film dichiara che il suo vuole essere “un saggio cinematografico sulla lingua”. Con delicatezza e con una regia essenziale, attraverso panoramiche e piani sequenza, si attraversano luoghi che a tratti sembrano abbandonati.

 

Nel film si alternano nove testimonianze di poeti, scrittori, musicisti, attrici, un filosofo e rabbino, insomma tutte persone  che hanno con la lingua un rapporto, per cosi dire, privilegiato in qualche maniera autentico. In ciascuna di queste testimonianze vi è la segnalazione di un dolore, di una violenza subita a causa di questa trasmigrazione, di questo passaggio, di questo transito da una lingua all’altra.

 

Il luogo del passaggio, la zona franca, quel tra l’una e l’altra, nel mezzo, nel passaggio, è impossibile situarsi, lì non vi è dimora possibile. Il tra è luogo non-luogo difficile a pensarsi.

Questo film sembra dirci che la parola è l’unica patria possibile, la parola come patria autentica, l’unico luogo che abitiamo è nella parola, la sola che possa restituire identità, li dove la si è smarrita…… Qualcosa è stato perduto della lingua abbandonata e qualcosa riemerge inesorabilmente della prima lingua imparata come il ritorno di un rimosso.

 

Il film ha un inizio geniale, infatti,  come accade nella Genesi dove all’inizio era il verbo , cosi accade nella prima scena del film dove l’ autrice fa notare come il suo nome Nurith  in ebraico significa luce. Una parola dunque è all’origine, un nome, la lingua ha una sua consistenza solo in quanto un soggetto le dona vita, la illumina…dice Nurith in apertura: «Qual è la mia lingua materna? Non so rispondere. È la lingua di casa mia? Quella delle mie prime parole? O l’altra lingua, quella della strada, della scuola, la lingua che ho imparato a leggere e scrivere? Sono nata alla fine della seconda guerra mondiale a Tel Aviv, la prima città ebrea. Molti amici avevano dei nomi ebraici moderni, nomi di qui, non nomi ebraici dell’esilio. I loro genitori si sforzavano di parlare in ebraico con loro, ma un ebraico colmo di accenti, solitamente povero ed approssimativo».

 

Da questa interrogazione iniziale sulla lingua materna si passa all’importanza del nome proprio e ci accorgiamo che, se fosse un saggio sulla lingua, il capitolo successivo a Che cos’è la lingua materna? non potrebbe che essere Il nome proprio

 

Il terzo capitolo del saggio è suggerito dal poeta Meier Wilsertier e potrebbe intitolarsi: Il rimosso ritorna nella lingua.

Meir Wieseltier è nato nel 1941 a Mosca e si è trasferito in Israele da ragazzino. È considerato uno dei più rappresentativi poeti israeliani, ha ricevuto l’Israel Prize for Literature, il premio più prestigioso del suo Paese. È professore associato all’Università di Haifa ed ha tradotto opere di poesia inglese, francese e russa in ebraico, le opere teatrali di Shakespeare e i romanzi di Virginia Woolf, Charles Dickens e E.M.Forster. Le sue poesie sono state tradotte in arabo, cinese, ceco, inglese, francese, tedesco, giapponese e molte altre lingue.  Elena Lowenthal dice di lui: «Meir Wieseltier per primo fa poesia di Tel Aviv, città di sabbia senza storia e dell’effimero, contrapposta all’eterna, eternamente immobile Gerusalemme di pietra, riservata, quasi per tacito accordo, all’estro magico di Amichai».

Meier Wilsertier racconta di come fu istintivamente costretto ad abbandonare la lingua materna, il russo, per imparare l’ebraico. Il russo lo conosceva benissimo grazie anche alla sorella che, annoiandosi la sera, gli insegnava le poesie di grandi poeti russi, che lui declamava montando su una sedia. La memoria della poesia russa non scomparirà del tutto ma riemergerà nel suo modo di scrivere sotto forma di ritmo, il ritmo della lingua russa è stato conservato, non tutto è stato dimenticato di quella lingua malgrado il suo tentativo di disfarsene, di assassinarla per rimpiazzarla con una lingua nuova, con l’ebraico.

Dice: «Quando ho voluto approfondire l’ebraico e scrivere, ho dovuto assassinare la lingua russa, eliminarla, perché faceva ostacolo, la lingua materna».

 

Anche per la poetessa Agi Mishol il passaggio all’ebraico è avvenuto al prezzo di una qualche perdita, per lei l’ebraico ha rappresentato quella che definisce una patria. Racconta della sua erranza nelle varie lingue apprese da bambina e di come l’ungherese sia stata una lingua “dolce come il latte materno”, ma ha abbandonato questo latte preferendo l’ebraico che definisce una lingua dura, difficile ma che per lei è la sua unica patria.

 

Anche per lo scrittore Aharon Appelfeld l’ebraico è divenuto quell’Altro che lo ha accolto dandogli asilo. La sua testimonianza è commovente, dolce e sublime, ed è difficile rendere l’intensità del suo racconto, del suo volto e di tutta una vita condensata nelle sue parole.

Aharon Appelfeld perde la madre uccisa in un campo di concentramento, di li a poco la stessa sorte tocca al padre, si ritrova cosi solo, in pieno conflitto mondiale senza nessuno al mondo, riesce a salvarsi , vive in un bosco e si nutre di ciò che trova nella natura, ha circa otto anni, viene adottato da alcuni criminali che definirà “la mia seconda scuola”.

Qual era la sua lingua allora? ne conosceva tante, l’yddish, lingua dei nonni ebrei praticanti, il romeno, l’inglese, ma non aveva lingua, parlava quella che definisce “la lingua del corpo” e non quella della parola. Nel 1946 Aharon Appelfeld si ritrovò sulla spiaggia di Napoli, dopo il nazismo, il campo di sterminio, i boschi, “la scuola di criminali”. C’erano un mare di profughi come lui su quella spiaggia. “Persone senza un volto e senza un fine”. Stette in Italia per tre mesi: “La mia prima terra promessa”. Si chiedeva: “ Chi sono? A chi appartengo? Perché sono qui? Cosa farò?”.

Adolescente in uno stato di totale smarrimento partì per Israele dove iniziò a lavorare in un kibutz e stranamente e meravigliosamente iniziò ad imparare l’ebraico. Cominciò allora, nelle ore in cui non lavorava, a studiare la Torah che lo affascinò subito. Impara l’ebraico con estrema difficoltà, dice che fu come scalare una montagna e racconta di un sogno frequente: «ancora oggi mi sveglio di notte perché sogno che l’ebraico è sparito, voglio acchiapparlo ma non riesco».

La paura di questa perdita cosa segnala se non la paura di un bambino che è perduto in un Altro dove non può reperirsi, senza genitori, senza casa, senza lingua…Ritrova la sua dimora nell’ebraico e, si sa, l’appartenenza, una volta ricostruita con tale difficoltà, diventa essenziale per continuare ad esistere…la paura di perderla è la paura di scomparire, è quel bambino solo in un bosco abbandonato, orfano.

Non a caso gli eroi dei suoi romanzi sono degli immigrati ma, e qui si vede come nulla può essere dimenticato per sempre, tutto ritorna inesorabilmente, diceva quel “mattacchione” di Nietzche, nei suoi romanzi fa parlare ai suoi eroi migranti, alla ricerca di una patria, il tedesco, la lingua di coloro che gli hanno tolto tutto, la lingua degli assassini ma anche la lingua dei criminali che per primi l’hanno adottato.

 

L’ultima testimonianza è quella di Daniel Epstein, il cui cognome evoca il termine filosofico di epistemologia, cioè teoria della conoscenza e chi meglio di un “teorico del conoscere” a concludere un  saggio sulla lingua!?

Daniel Epstein è innamorato della lingua francese a cui non riesce a rinunciare sebbene la sua lingua, per cosi dire, ufficiale, la lingua del suo insegnamento e della sua professione, sia l’ebraico che definisce una lingua estremamente precisa, coincisa, una lingua dell’etica, una lingua del rigore.

Il francese invece è una lingua che non riesce ad abbandonare non solo per la passione per i filosofi francesi, ed in particolare per Levinas, ma perché il francese, dice, “è la lingua della poesia”, “la lingua dell’amore”, “vi sono delle sottigliezze nel francese che l’ebraico non ha”.

Fa allora l’esempio del termine tendresse, tenerezza, dolcezza, la cui traduzione in ebraico sarebbe rakut, ma fa notare che rakut non rende per nulla la dolcezza che è dentro il termine tendresse.

Dice di sentirsi  come “sballottato”, usa una metafora marittima, come un battello che ondeggia da una parte all’altra, da una lingua all’altra, un naufrago tra poesia ed etica, rigore e tenerezza…il maestro che tutti sogniamo…

«C’est probablement le défi de ma vie. Vivre et transmettre des messages, je dirais impossibles, d’une langue à l’autre, d’un monde à l’autre», è probabilmente la sfida della mia vita. Vivere e trasmettere messaggi, direi impossibili, da una lingua all’altra, da un mondo all’altro.

 

Interno di una casa, al crepuscolo.

Una finestra  con una grata, simile a quella dei conventi da cui s’intravede un fuori, un albero.

Sottofondo: vocio di strada. Titoli di coda.

 

 

Un Commento a “Virginia Zullo – Da una lingua all’altra – un film di Nurith Aviv”

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