Janja Jerkov – Lettera a Dino Messina

Gentile Dino Messina,

 

l’ampio articolo [Giù dal lettino. La “società dei narcisi” teme l’analisi classica, pp. 32-33 della Cultura,  “Corriere della sera” di domenica 13.02.2011] da Lei dedicato alla crisi in cui versa la psicanalisi oggi in Italia spalanca una grande questione che è merito Suo (e del Suo giornale) avere affrontato e che, per la serietà (e l’intelligenza) dell’inchiesta, ma anche la complessità del tema, merita qualche ulteriore considerazione e, se me lo consente, precisazione.

 

Non si tratta qui di ribadire – come è pur vero – che i problemi della psicanalisi in Italia non possono – oramai da molto tempo – essere ricondotti al solo punto di vista dell’area della SPI (Società di Psicoanalisi Italiana)  che – pur autorevole per storia e numero di membri – rappresenta solo uno dei soggetti implicati nel dibattito clinico da molti anni ingaggiato, tramite la propria presenza sul territorio nazionale, dalle Associazioni psicanalitiche. Tali Associazioni sono spesso, al pari di quella, a dimensione “globale” (l’Associazione di cui, per esempio, io faccio parte conta i suoi numerosissimi membri oltre che in tutta Europa, nelle due Americhe, in Africa, in Australia, nel Medio Oriente ecc.).

Si tratta piuttosto di provare a mettere i suoi lettori nella possibilità di cogliere meglio, e più esattamente, la posta in gioco delle questioni evocate dal Suo articolo-inchiesta.

 

Crisi della psicanalisi. Il discorso psicanalitico (di qualunque indirizzo esso sia, anche se non tutti gli indirizzi possono essere considerati rigorosi allo stesso modo) è anche un tipo di discorso sociale, cioè un modo di rapportarsi fra esseri-parlanti (che va ben al di là del semplice rapporto analista-analizzante) e, come tale, è strutturalmente correlato ad altri tipi di discorso sociale. Se la società è in crisi, allora anche la psicanalisi è in crisi; non si dà una psicanalisi in crisi senza il prius logico di una società che lo sia. Se la società cambia, la psicanalisi cambia. Ed è indubbio che la nostra cultura (quella dei paesi tecnologicamente avanzati fra i quali si annovera l’Italia) stia velocemente e inesorabilmente cambiando. Altri, più competenti di me, potranno tentare di indicare le cause dei processi in corso. Ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che il tradizionale modello patriarcale non è più accettato come regolatore dei rapporti sociali: dalla famiglia al governo della cosa pubblica. Il “vecchio” padre autoritario, che faceva la legge in casa e fuori, oramai ha perso la sua credibilità. Ne sono prova la fine degli ideali storicamente operanti alle nostre latitudini: Dio, Patria, Partito, Esercito, Famiglia ecc. ecc., cioè la fine di tutte le incarnazioni del principio di autorità abitualmente rappresentato dalla figura paterna. Ora, ciò su cui non viene in generale posta sufficiente attenzione, è che quell’”antiquato” (e, come sembra, non più proponibile) principio di ordine esercitava al contempo una funzione regolatrice insostituibile tra gli uomini – funzione che, con il declino del pater familias, non ha ancora trovato nuovi modi per esercitarsi e lascia un vuoto che fa problema.  Voglio dire che il padre (il principio di autorità) non rappresentava solo l’elemento autocratico della casa o della vita politica, ma anche colui che assegnava ai figli (e ai sudditi) il posto di ciascuno nella catena delle generazioni e, dunque, nella vita e nella società. Non è un caso, dunque, che oggi si manifestino con sempre maggior forza fenomeni di disorientamento radicale negli individui sino a far vacillare le loro stesse identità sessuate.

 

Sintomi e nuovi sintomi. Se è vero – come è vero – che la psicanalisi è un tipo di discorso sociale, allora è inevitabile che quando mutino i funzionamenti della società mutino anche i tipi di disagio psichico dell’uomo-in-società. Contrariamente a quanto afferma Bruna Aniasi nel box del Suo articolo, non è vero che oggi non si vedano più isteriche (anche se gioverebbe sottolineare che, a differenza dei medici, psicanalisti  e psicoterapeuti non “vedono”, ma “ascoltano”). E’ invece vero che l’isteria nell’Italia e nell’Europa del III millennio non può manifestarsi con le stesse modalità di un’isteria dei tempi di Freud, il quale l’aveva descritta così come questa era venuta strutturandosi in dipendenza del discorso sociale all’interno della felix Austria di Cecco Beppe. (Lo stesso Freud, del resto, sul finire della vita si era convinto che l’originario paradigma dell’isterica da lui elaborato negli anni ‘90 del XIX secolo andasse rimesso in discussione. Sfortunatamente, la morte gli impedì di farlo).

Le dipendenze da droghe, da alcool; le stragi del sabato sera; i disturbi alimentari (anoressie, bulimie); la prostituzione minorile ecc., ai quali i media dedicano molto spazio e i quali colpiscono così fortemente l’opinione pubblica, costituiscono altrettante manifestazioni delle difficoltà in cui si dibatte il soggetto moderno alle prese con le trasformazioni del discorso sociale di cui egli è l’effetto. I sintomi cambiano in dipendenza dei cambiamenti sociali e, nel corso dei tempi, assumono tratti diversi. Guai, però, a cercare di dare ad essi nuove risposte di tipo fondamentalmente fenomenologico, come succede oggi con i vari DSM che continuano a susseguirsi nel vano tentativo di circoscrivere i tipi clinici dopo averli sistematicamente polverizzati in una miriade di tratti privi di un saldo ancoraggio a una struttura di riferimento. Quello stesso approccio fenomenologico che fa capolino anche dalle righe del Suo articolo nel quale la nosografia “moderna” riportata dagli illustri colleghi da Lei intervistati viene da questi ultimi troppo affrettatamente presentata  come una “classificazione” acquisita laddove essa è, a parere non solo di chi scrive, sintomatica.

 

“Cosa ci sta a fare la psicoanalisi vicino a un computer?”, si chiede Guido Medri, neuropsichiatra e psicoanalista di Milano. Ebbene, mi piacerebbe che – alla luce delle considerazioni sin qui esposte – risultasse chiaro come la psicanalisi abbia strutturalmente a che fare proprio con il computer (o qualsivoglia tipo di strumento sofisticato), se quest’ultimo assurge a significante del mondo che abitiamo. Perché la psicanalisi vive nel mondo e con il mondo dialoga. Né può essere altrimenti.

 

Lettino sì, lettino no? Terapie lunghe, terapie brevi? Guarire, non guarire? Questioni enormi, che meriterebbero ben altro dibattito. Non mette qui conto di rispondere ricordando, per tacitare i detrattori dell’esperienza analitica, come molti dei risultati delle neuroscienze siano stati da quasi un secolo anticipati dalle scoperte psicanalitiche. Né di intervenire sulla questione del lettino, divenuto metafora di una clinica percepita all’esterno come “alambiccata”, di difficile comprensione, che non “tutti possono reggere” (sic!) e, per di più, costosa e di lunga durata. Bisogna invece riconoscere che, a differenza di quanto si è verificato per altri paesi europei (compresi quelli dell’Europa “orientale”), il discorso psicanalitico non è mai riuscito a penetrare nel tessuto culturale italiano. Come mai? La risposta a questa domanda ci rivelerebbe qualcosa di essenziale sul nostro stesso modo di funzionare in quanto nazione. Le cause, complesse e diverse, sono probabilmente da individuare in un insieme di fattori che vanno dal predominio all’interno della nostra cultura di discorsi (cattolicesimo, comunismo) nella loro essenza totalitari (nella misura in cui essi da sempre respingono la concezione di un soggetto fondamentalmente diviso e, come diceva Freud, nient’affatto “padrone in casa propria”) al perdurare  all’interno del nostro tessuto civile di forme di potenza materna (si pensi al mammismo italico!) che si trovano di fatto a trasmettere la vita senza un sufficiente riferimento alle questioni della lingua, della cultura, della religione o al posto che il bambino occupa nella filiazione dagli antenati. Vale a dire: a tutto ciò che favorisce un rapporto critico e consapevole con la soggettività e il legame sociale che detta soggettività stabilisce con l’Altro.

Gli effetti del particolare funzionamento dei nostri modelli culturali comportano oggi in Italia l’indubbia marginalizzazione del discorso psicanalitico rispetto ad altri discorsi dominanti – della quale marginalizzazione, va detto a gran voce, sono in parte responsabili gli psicanalisti stessi. Quando agli inizi degli anni ’70 entrò in vigore la c.d. Legge Ossicini che di fronte a un problema oggettivo della società civile – come regolamentare la pratica psicanalitica e psicoterapica? – rispose istituendo l’obbligo degli studi di medicina o di psicologia per gli aspiranti psicoterapeuti, gli analisti si chiusero nella torre eburnea di una concezione della psicanalisi “pura” e incontaminata dalle derive della psicoterapia. Con il risultato che – a distanza di qualche decennio – in Italia è venuto montando un clima maccarthista nei confronti di quanti attualmente esercitano la psicanalisi ­– clima favorito dalla concorrenza delle terapie cognitivo-comportamentali che si prefiggono di “resettare” il paziente in tempi brevi e, insieme, delle falangi di neo-laureati in psicologia che, faticando a trovare lavoro, blindano armi alla mano quello che pretendono essere il loro (!) “territorio”.

 

Quale futuro per la psicanalisi in Italia? Se, dunque, il discorso sulla psicanalisi oggi in Italia si articola nei modi sintomatici che conosciamo, ciò non significa che la questione della psicanalisi debba continuare ad essere schiacciata sulla sintomatologia. Né che la faticosa ricerca di nuove modalità di rappresentatività sociale da parte degli Italiani in questi ultimi tempi possa illudersi di essere disgiunta dalla necessità di avviare quanto prima una riflessione su di sé in quanto popolo. Ma, attenzione: non si può essere soggetti della grande Storia senza prima, in quanto individui, esserlo di quella privata e personale. Tale sforzo richiede strumenti e tempi appropriati. Fino a che la riflessione resterà appiattita su paure fantasmatiche o su altri tipi di discorso (medico, psicologico, filosofico, sociologico ecc.) non potrà mai svilupparsi una diversa specificità. C’è dunque da augurarsi che la necessità di sostenere ed ampliare anche da noi lo spazio di una dimensione squisitamente clinica (non medica e nemmeno semplicemente culturale!) del discorso psicanalitico assurga quanto prima a consapevolezza nei soggetti più vivaci della nostra società civile.

 

Con i più vivi ringraziamenti

 

Janja Jerkov

Associazione Lacaniana Internazionale in Italia

Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti

 

 

 

Un Commento a “Janja Jerkov – Lettera a Dino Messina”

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