Fabrizio Gambini – Perseguitare il persecutore

Fabrizio Gambini

Perseguitare il persecutore

ovvero

Cosa ne è della Paranoia nella società dell’immagine?

Saggio per un’analisi topologica di una forma di psicosi nella Nuova Economia Psichica

Nell’interlocuzione tra l’Io e un’allucinazione non è mai questione di simmetria. Non c’è alcuna forma di simmetria tra l’Io stesso e l’oggetto che si presenta come allucinazione. È un altro modo per dire quel che Freud già notava, ovvero che l’oggetto, quando si presenta, è presente su uno sfondo d’angoscia. L’angoscia accompagna sempre una percezione il cui tratto fondante è la mancanza di simmetria rispetto all’Io per cui si produce.

È questo l’incubo della materializzazione del doppio: l’immagine speculare che ci corrisponde, col braccio sinistro che gratta lo stesso naso che noi grattiamo col destro, cessa di essere speculare, si anima di un’anima che non è la nostra, e smette di corrisponderci. A ben vedere non è neanche sicuro che si tratti dello stesso naso perché, ad esempio, nel caso che sul naso si abbia un neo sulla narice destra, l’immagine corrispondente mostra un naso fornito di neo a sinistra. La simmetria è in fondo la garanzia di un ordine che fa sì che il mondo che vediamo corrisponda ordinatamente a ciò che supponiamo ci sia lì dove qualcosa vediamo. Si tratta della simmetria fondamentale che costituisce la garanzia della relazione biunivoca e simmetrica tra ciò che è impresso sulla retina come immagine e quanto c’è nel mondo la cui immagine ci rappresentiamo. Ma quando l’immagine in sé si anima? Quando si rende cioè indipendente e si mette lei, l’immagine, ad esistere? Allora la simmetria costitutiva del nostro mondo si rompe e la mancanza di simmetria che caratterizza l’insorgenza del doppio genera angoscia. Da questa angoscia, a protezione dall’angoscia stessa, si genera l’idea del persecutore. È quello che succede al personaggio di Gogol che si trova perseguitato dal proprio naso, è quello che succede al personaggio della fiaba di Andersen che si trova perseguitato e condannato a morte dalla propria ombra, è quello che avviene al Dr Jekyll perseguitato dall’odioso Hyde, ed è quello che avviene a Tertuliano Máximo Afonso per aver noleggiato una videocassetta. In sostanza è quello che sempre avviene nel momento in cui la fantasia dei romanzieri evoca l’incontro impossibile col doppio.[1]

Il doppio infatti è quanto ci corrisponde, senza però corrispondere per questo all’immagine che noi ci facciamo del mondo. A prima vista non tutti gli oggetti che ci corrispondono e animano un Reale diverso dalla nostra realtà, sembrerebbero avere la caratteristica di essere “doppio”, ma, a ben vedere, c’è qualcosa che spinge comunque in questa direzione. Che dire, ad esempio, del Dio che parla all’Io dal luogo della forclusione dell’istanza paterna? Il Dio della psicosi, in qualche modo, è sì un doppio dell’istanza paterna,[2] ma un doppio che non possiamo riconoscere come tale, non avendo accesso all’originale così duplicato. Il risultato è che la percezione allucinatoria compare, come si è detto, su sfondo d’angoscia. Evidentemente il rapporto tra Io e Dio è altra cosa del rapporto tra Io ed Io[3]: il Dio che parla allo psicotico è un altro Dio da quello che l’Io si rappresenta come oggetto della fede che sceglie di testimoniare. Siamo un po’ nella situazione evocata da quella barzelletta, puntualmente e acutamente segnalatami dalla persona alla quale avevo accennato, per discuterne, il contenuto di questo scritto, e nella quale un signore si trova totalmente solo in cima ad una montagna e di fronte ad un panorama grandioso. Si guarda intorno, guarda in alto, e comincia a gridare: “C’è qualcuno?” Sempre più angosciato e inquieto, grida sempre più forte, fin quando una voce dal cielo risponde “Dimmi figlio mio”. “Chi sei?” interroga l’uomo, e la voce risponde “Io sono Dio”. “E come faccio a saperlo?” interroga di nuovo l’uomo. “Gettati nel vuoto affinché i miei angeli ti possano raccogliere e portarti da me” risponde serena la voce. L’uomo, incerto, si guarda un po’ intorno e grida: “C’è qualcun altro?”

Il punto fondamentale dunque è che quello che ci corrisponde nel registro della psicosi, ad esempio le allucinazioni che noi produciamo, non ci corrisponde nel registro immaginario, e per questo simmetrico, in cui l’Io riconosce il mondo e riconosce se stesso. Per questo, ripeto, l’insorgenza dell’oggetto nel nostro campo percettivo avviene e non può che avvenire su sfondo d’angoscia.

Non è l’unica caratteristica dell’oggetto. Ad esempio ce n’è una seconda che è quella della reciprocità. Ma la reciprocità non è la simmetria. Da un oggetto orale si può essere mangiati, da ciò che vediamo possiamo essere visti ma, ripeto, questa reciprocità non è simmetria e, non essendo simmetria, non è in grado di proteggerci dall’angoscia. Che dire, ad esempio, di una madre che dica al proprio bambino: “Ti mangerei di baci”? La fonte di nutrimento si fa divoratrice. Dove collocare un amore del quale si è oggetto e in nome del quale si può essere nutriti, vezzeggiati e, nello stesso tempo, divorati?

Non saprei citare l’autore o il titolo, ma ricordo perfettamente un breve racconto di fantascienza in cui una specie di postino spaziale naufraga con la propria astronave su un pianeta sconosciuto e lì si imbatte in un enorme animale simile ad una pantera. Della pantera l’animale ha il corpo, i peli, la bocca, le zanne e gli artigli, ma non ha gli occhi né il naso né le orecchie. La testa assomiglia piuttosto ad una grossa palla di pelo il cui aspetto è tale da far pensare che l’animale voglia aggredire e divorare l’uomo. Nel suo cercare di sfuggire all’animale, l’uomo si chiede con quali sensi l’animale lo individui, per capire come nascondersi: sottrarsi allo sguardo su o dietro un albero, sottrarsi all’olfatto rotolandosi nella terra o immergendosi nell’acqua, sottrarsi all’udito restando in assoluto silenzio? Come sfuggire a chi ti segue senza occhi per vedere, orecchie per sentire e naso per annusare?[4] In forma romanzata è la questione che Lacan pone nel seminario sull’angoscia quando evoca l’immagine di una mantide religiosa nel cui occhio prismatico non ci si può specchiare. Non sappiamo cosa e chi siamo per lei che, insieme, ci ama e ci divora. È da questa forma d’angoscia che la simmetria dell’immagine ci protegge: occhio per occhio, dente per dente, punto per punto. L’allucinazione, il ritorno dell’oggetto nel reale, pur essendo preso nella reciprocità, manca di questa simmetria, e per questo genera angoscia.

Un modo per proteggerci dall’angoscia generata da questa specifica mancanza di simmetria, senza per questo sprofondare in un rapporto puramente immaginario tra l’Io ed il suo Tu speculare che, in quanto tale, non è nient’altro che l’immagine rovesciata dell’Io, è il riconoscimento della funzione della differenza sessuale. Molto banalmente, questo significa potersi inscrivere, ad opera della castrazione, in una soggettività sessuata.

Vale la pena, a questo punto, di fare una piccola digressione, circa le modalità con le quali il riconoscimento della differenza sessuale ci protegge dal presentarsi dell’oggetto in quanto fonte d’angoscia. Di questo si hanno tracce imponenti quanto evidenti: ho visto recentemente un adolescente precipitato in una crisi di panico dal pensiero che forse era all’inizio di una relazione d’amore, e di sesso, con una compagna di scuola. Se la relazione non è col simile, con lo speculare, col simmetrico e, per questo, col prevedibile, la relazione stessa diventa fonte d’angoscia: per salvarsi, ha dovuto fuggire, come il postino spaziale o come davanti ad una mantide religiosa. Ci torneremo più avanti in questo scritto.

In ogni caso, in generale, il nostro strutturale sentimentalismo ci porta a pensare che là dove c’è sesso, possa eventualmente esserci anche amore. Talvolta ci spingiamo addirittura a pensare il sesso come conseguenza sciagurata della caduta dell’amore e al ritorno all’amore come guarigione dal sesso. Per introdurre invece il punto centrale di quel che intendo con la nozione di ineliminabilità della presenza della divisione sessuale per quanto riguarda la protezione dall’angoscia, vorrei provare a rovesciare la frase nel modo seguente: là dove c’è amore siamo sicuri che, se le vanno come devono andare, c’è sesso; ovvero è il sesso che consentirebbe una sorta di guarigione dall’amore, che ne consentirebbe, diciamo così, un esercizio temperato. Si tratta di una proposizione che, a ben vedere, è decisamente fastidiosa e, direi, poco digeribile ai più.

Finché la questione riguarda un uomo e una donna siamo tranquilli, ben installati nel nostro senso comune come in una pantofola: sesso e amore appaiono poter andare di pari passo, sesso accompagnato dal dono dell’amore o amore dal quale, completandolo, il sesso ci protegge. Ma la stessa proposizione (là dove c’è amore c’è sesso) può ugualmente riguardare due uomini o due donne, così come riguarda madri, padri, figli e figlie, e come riguarda la relazione che ognuno di noi ha con il prossimo, del quale ci dicono che andrebbe amato come amiamo noi stessi. La frase riguarda dunque anche la relazione che abbiamo con noi stessi e, infine, riguarda l’amore degli amori, il modello di ogni amore, ovvero l’amore che l’essere umano ha per Dio e il suo reciproco: l’amore che l’uomo suppone a Dio nei suoi confronti.

Quando dico che quello per Dio è il modello di ogni amore, intendo qualcosa di molto preciso, ovvero che è modello di ogni amore perché è amore nella sua forma pura, nella sua forma perfettamente soggettiva, in quanto rivolto a ciò che non c’è: amore per ciò che non esiste. Il punto è che questa forma di assenza dell’oggetto è caratteristica di ogni forma d’amore e, ripeto, è per questo che l’amore per Dio è il modello di ogni forma d’amore. L’oggetto d’amore non c’è, come non c’è Beatrice per Dante, Laura per Petrarca e Silvia per Leopardi. Tutt’e tre, Beatrice, Laura e Silvia, hanno dovuto non esserci per poter esistere per sempre per ognuno di noi in quanto trasfigurate dall’amore di uno di noi.

L’amore è amore dell’assenza, è amore della mancanza. L’amore è nostalgia, è lontananza. Lo celebra una vecchia canzone di Domenico Modugno: “La lontananza sai è come il vento…” che non ricordo esattamente cosa faccia ma che, in sostanza, trasforma in incendi i fuocherelli, e lo celebra una celebre immagine di Levinas, che metaforizza l’incontro con l’altro come una carezza, ovvero un gesto pudico di ritiro e di allontanamento.

Ora, il sesso è precisamente ciò che istituisce la mancanza che, quando funziona come si deve, genera carezze, ovvero amore.

Questo vuol dire, ad esempio, che c’è divisione sessuale tra una madre e suo figlio e, se c’è divisione sessuale, è fondamentale che ci sia riconoscimento della stessa e che, conseguentemente, possa esserci la sua simbolizzazione, ovvero il suo farsi parola. Forse è necessario ricordare a questo punto la psicoanalisi e l’accusa di pansessualismo che a questa è stata e continua ad essere rivolta. Su questo, sull’importanza della teoria sessuale per Freud, ci sarebbe da interrogarsi al lungo[5], per il momento limitiamoci ad osservare che una madre che abbia parole per nominare la distanza, che l’accetti come costitutiva della relazione, potrà volere il bene di suo figlio senza per questo volere la perfetta corrispondenza tra il figlio e l’oggetto immaginato come necessario al compimento del suo ben-essere di madre. Pensate all’amore di Maria per Gesù, amato come figlio e “lasciato” libero di morire in croce per compiere qualcosa che riteneva parte necessaria del suo percorso. Ma, molto più in piccolo, penso alla madre di un mio paziente, un omone di 120 kili del quale la madre è riuscita a dire: “Lei lo sa dottore, per me N. è come un figlio”. Chi assisteva con me al colloquio l’ha preso come una sorta di lapsus con il quale si prendeva una certa distanza dalla maternità e dalla responsabilità della stessa. È strano, ma io l’ho presa al contrario: avere un figlio può succedere; succede alle leonesse e alle tigri come alle donne, ma che N. fosse come un figlio, implica una scelta, un rafforzamento, un raddoppiamento[6] e una conferma solo umana del legame biologico. Ovvero ho letto in quel “come”, la cifra di un disconoscimento, di un mancato riconoscimento della differenza sessuale che separasse l’omone da ciò che era per sua mamma.[7]

Al contrario, il riconoscimento della differenza sessuale, questa introduzione nella dialettica io – tu di una differenza che, ripeto, è sessuale, impedisce lo svolgersi di un rapporto sterile, a prodotto zero, puramente immaginario tra l’Io e il suo Tu speculare, che non è nient’altro che l’immagine rovesciata dell’Io.

È da questo che il riconoscimento della differenza sessuale ci protegge. Più in generale non si tratta solo di protezione dalla psicosi, ma anche del fatto che, ad opera del riconoscimento della differenza, siamo protetti dalla contingenza moderna che vede il trionfo dell’immaginario e l’annegamento del desiderio nella concupiscenza dell’oggetto di consumo.

In questo contesto l’altra metà dell’androgino, la metà perduta, non sarebbe, diciamo così, l’altra metà della mela, bensì l’immagine speculare dell’unica metà che, in quanto immagine, sostiene l’illusione dell’esistenza della mela in quanto intero. Ne consegue che la sessualità è ciò che consente a tutte le mezze mele che siamo di sopportare di essere divise e, insieme, di avere a che fare con altre mezze mele, anche loro auspicabilmente sopportanti di essere mezze. [8]

Sappiamo bene che è per questa ragione che nella psicosi, caratterizzata da una peculiare difficoltà di accesso alla castrazione, resta la traccia di una difficoltà nel riconoscimento della differenza tra i sessi. Freud direbbe che resta la traccia della fondamentale bisessualità dell’essere umano, resta, in ogni caso, come una specie di ordito che soggiace alla tela in cui si rappresenta ogni forma unica, individuale e irripetibile di psicosi.

Anche nel caso del quale intendo parlare c’è una traccia di questo, e Barbara, puntualmente, narra di un passato “gravato” da difficili esperienze omosessuali. Adesso non ha una vita sessuale e il sesso sembra essere l’ultimo dei suoi problemi. La peculiarità di Barbara, la cifra della sua situazione psicopatologica, non sta però nella sua presunta omosessualità, bensì nel modo in cui Barbara nega la funzione della differenza nella relazione Io – Tu, interloquendo con un altro immaginario che non sarebbe nient’altro che lo specchio dell’Io, se non fosse che il gioco tra l’oggetto a e l’oggetto a1 fa comparire nello specchio l’oggetto, dando all’altro della relazione immaginaria la funzione di persecutore. In altre parole, il sintomo, piuttosto che operare come una sorta di raddoppiamento del simbolico, nel caso di Barbara, opera piuttosto come un raddoppiamento dell’immaginario, in un gioco tra a e a1 che esclude ogni rassicurante simmetria nello specchio dell’Io.

Partiamo, per provare a rappresentare questa situazione, dal gioco tra immaginario, reale e simbolico.

È un gioco che possiamo immaginare[9] attraverso un falso nodo a trifoglio:nodo a trifoglio

Qui, nel falso nodo a trifoglio, avremo che la separazione, e dunque la possibilità di funzionamento simultaneo R. S e I in quanto separati, è data soltanto dal ripiegamento del tratto orizzontale della corda verso l’alto e che niente impedisce al trifoglio di diventare un otto, e all’otto di diventare un cerchio, ovvero uno spazio in cui non è possibile alcuna articolazione tra R,S e I: quello che sarebbe una sorte di morte psichica, una resa totale alla schizofasia, al gioco totalmente anarchico e disarticolato tra lettera, significante e significato. Affinché questo falso nodo tenga, consentendo almeno una parvenza di psichismo, è dunque necessario ricorrere ad una seconda corda, che può essere posizionata in diversi punti:

Il primo (fig. 1) fissa l’incrocio in basso in modo da lasciare possibile in ogni momento la costruzione di un otto in cui S è separato dallo spazio comune di R e I. n2

Il secondo (fig 2) fissa l’incrocio a sinistra in modo da consentire un otto in cui R è separato dallo spazio comune costituito dalla coincidenza di S e I: n3

Il terzo infine fissa l’incrocio a destra in modo da rendere impossibile il disfacimento della forma a trifoglio (fig. 3) e dunque l’articolazione e separazione tra S, R e I.n4

Direi che per Barbara qualcosa è successo che ha legato i tre registri nel modo indicato dalla figura 1, ovvero una sorta di forclusione del simbolico che lascia totalmente separato lo spazio comune al reale e all’immaginario. Il reale è quel che Barbara immagina che sia e, nella realtà, questo reale compare come un’ombra pervasiva, come un doppio strisciante che la getta nell’angoscia. Mancanza di simmetria, l’abbiamo detto, ma non mancanza di reciprocità e dunque l’odio per l’ombra crea l’odio da parte dell’interlocutore che da quest’ombra è investito. In altre parole, gli accidenti della sua vita, l’hanno portata ad annodare i registri all’incrocio di I e R (fig. 1). Questo significa che l’oggetto a si raddoppia immaginariamente in un oggetto a1 del quale non c’è modo di liberarsi e che non cessa di segnare, con la sua angosciante presenza, l’altro dell’interlocuzione immaginaria. Fermo restando quell’annodamento, si è prodotta una irrimediabile separazione tra S da un lato, e I ed R dall’altro. E anche questo è un modo per rappresentare qualcosa della forclusione del simbolico che costituisce il tratto propriamente paranoico di Barbara.

Il padre, professionalmente affermato, ha su di lei e sul suo corpo un potere di vita e di morte. Barbara ricorda, o meglio, pensa e teme di ricordare, un episodio un po’ confuso: lei bambina su un divano, qualcuno, forse un amico del padre, era seduto sullo stesso divano e delle carezze o un contatto le hanno fatto pensare che il padre, presente nella stanza, la offrisse quale oggetto di godimento sessuale alla concupiscenza dell’altro. Se dichiarava la sua difficoltà, se cercava aiuto, in questa come in molte altre circostanze successive, la domanda d’aiuto era bollata come malattia dal padre che, a causa del suo potere sociale e professionale, e intendo con questo il potere pressoché infinito che Barbara suppone al suo terrificante padre immaginario, trovava sempre chi ratificava questa sua diagnosi, impedendo così all’urlo di dolore di Barbara di essere altra cosa che una espressione sintomatica, scaturita come un fungo dal suo micelio dal luogo oscuro della follia di Barbara. Qui non si tratta di metafore. Al centro della questione si trova infatti la voce o, se preferite, l’orecchio che questa voce raccoglie. È l’orecchio/voce che, letteralmente, incarna per Barbara il persecutore. I vicini la odiano e la perseguitano perché odono le sue urla, e non si rendono conto che lamentandosi di queste, la spingono ad urlare sempre di più, in una spirale senza fine. Adora il telefono, è il suo strumento preferito. Quando mi parla, anche di persona, nei momenti in cui mima la voce dell’Altro (il padre, un vicino), la sua voce si arrochisce, si trasforma e si carica d’odio come una nuvola dell’acqua di un temporale. Lo stesso tono a tratti compare, non come mimesi dell’altro che la perseguita, bensì come effetto del suo rivolgersi a me, quando mi ingiuria. In questa circostanza è lei il persecutore che mi accusa di perseguitarla in quanto rappresentante di una psichiatria che non ha con lei altro rapporto se non quello determinato dal suo essere lo strumento coercitivo e violento della volontà persecutoria del padre. L’annodamento di Barbara si è fatto tra un padre immaginario e terrificante che minaccia, punisce ma che non istituisce una regola riconoscendo la quale si avrebbe diritto all’amore. La domanda d’amore, rivolta a quell’oggetto immaginario, diventa persecuzione, diventa stimolo alla punizione, all’esercizio della violenza. Quello di Barbara è un odio/amore che genera odio. Barbara diventa così una specie di stalker,[10] preda di una paranoia che ha la preoccupazione di costruire concretamente, nella realtà, il proprio persecutore, e lo fa nell’unico modo che conosce, perseguitandolo. D’altronde è l’odio che si situa alla giunzione tra immaginario e reale ed è lì che Barbara si è trovata a fare il suo annodamento. Il simbolico resta fuori campo, escluso dal tentativo di far coincidere la realtà col reale annodato all’immaginario.

Questa situazione domanda una particolare cura per essere maneggiata ed è una cura alla quale si deve sempre molta attenzione quando si tratta di maneggiamento di un transfert psicotico. Bisogna fare attenzione a che, nella gestione transferale di una situazione del genere di quella descritta, non si vada formando un annodamento di tipo 2 che vede l’immaginarizzazione di un padre simbolico a scapito di una specie di “forclusione” del Reale che non ne consente alcuna caduta. Barbara mi parla di un precedente terapeuta, morto, che lui sì che aveva capito, che lui sì sarebbe stato in grado, che lui sì avrebbe potuto antagonizzare il padre. Ciò a cui bisogna fare attenzione è di non trovarsi mai nella posizione del terapeuta morto, ovvero di chi “lui sì”. È una posizione che apre fatalmente a reazioni terapeutiche negative. Il reale non metabolizzabile di questa immaginarizzazione di un transfert simbolico, ritorna sempre e ritorna con la carica di odio che puntualmente si presenta alla giunzione tra reale e immaginario.

Eppure si tratta di provare ad operare uno spostamento del nodo dalla posizione in cui il legame tra immaginario e reale forclude il simbolico (fig. 1), ma si tratta di spostarlo verso il legame tra simbolico e reale che, come si vede dall’immagine del nodo, non “forclude” nessuno dei tre registri, bensì li tiene annodati in modo che questi possano funzionare all’unisono ma separati tra loro.

Ora, per forzare il transfert a costruire questo tipo di quarto anello (fig. 3) non è che ci siano molti modi, anzi, sempre più, con l’avanzare della mia esperienza nel trattamento di quadri psicotici gravi, mi pare che il modo sia uno solo ed è quello di far valere, in un certo modo, la funzione del “no”.[11]

Il “no” di cui si tratta è un “no” al quale un agente sia supponibile. Questo significa che quel “no” non sarà un puro Reale che, a rigor di termini, renderebbe letteralmente non esistente l’oggetto negato, e che non sarà neanche il riflesso di una posizione immaginaria (fin troppo facilmente percepibile come contrap-posizione) attribuita all’altro che detta la sua legge violenta e arbitraria. Piuttosto il “no” che andiamo ricercando è la funzione di un limite percepito come il riflesso di un po’ di Simbolico, del poco Simbolico che il soggetto può avvicinare, avvicinandosi così, nella misura del possibile per lui, a qualcosa che sarebbe vagamente dell’ordine della castrazione.

Quello di cui parliamo è un “no” non sempre facile da maneggiare, in particolare si tratta di evitare l’immaginarizzazione di un’istanza paterna, forclusa nel simbolico, che rischia di tornare nel reale senza alcuna possibilità di essere articolata, se non come allucinazione o idea delirante. È quel che è successo a Schreber con Flechsig ed è quello che in effetti succede spesso col risultato di esporre il paziente ed il suo terapeuta a reazioni terapeutiche negative o a delle impasses irrisolvibili della cura. La ricetta per evitare che questo succeda è apparentemente semplice anche se il tentativo di capire che cosa questa significhi in concreto ci occuperà per un po’ di tempo. Per il momento la formulerei nel modo seguente: temperare col riferimento al reale la funzione immaginaria della quale si è transferalmente investiti, al fine di consentirne una parziale simbolizzazione.

In prima istanza, prima di addentrarci nei percorsi clinici che possono illustrare questa posizione, vorrei riprendere alcune questione relative agli annodamenti possibili dei tre registri.nodo 1Questo è un nodo a trifoglio che, in quanto tale, definisce quattro spazi. Questi sono costituiti da uno spazio centrale formato dalla confluenza dei tre spazi laterali. Se indichiamo questi ultimi con R,S e I al centro avremo uno spazio che è R + S + I. Si tratta di un vero nodo, ovvero di un intreccio che non si può sciogliere a meno di non interrompere la continuità della corda che ce lo fa immaginare. Non è un osservazione banale; significa che non diventa psicotico chiunque lo voglia. Al contrario, bisogna che questo tipo di annodamento sia fallito, perché qualcosa del funzionamento inconscio possa manifestarsi “a cielo aperto” ovvero secondo una modalità appunto psicotica.

In ogni caso, in questo tipo di annodamento, siamo presi in un funzionamento psichico che si confronta con oggetti investiti di un loro valore reale, simbolico e immaginario, e dunque posizionati nello spazio centrale, ma, nello stesso tempo, la nozione di simbolico, di reale e di immaginario, risulta istituita per il soggetto che in questo modo può scomporre l’oggetto nel proprio discorso, pur salvaguardandone l’unità in quanto oggetto causa del proprio desiderio.

Ho già accennato al fatto che recentemente è venuto a consultarmi un ragazzo adolescente: bravo ragazzo, ottimo studente, impegnato in lodevoli attività extrascolastiche, di aspetto piacevole. Cos’è che non va? Ha conosciuto una ragazza, ha pensato che avrebbe potuto conoscerla meglio, ha avuto l’impressione che la ragazza non fosse restia ad approfondire la conoscenza, si sono scambiati un bacio e gli è esplosa una crisi d’angoscia per la quale ha “dovuto” troncare immediatamente la relazione appena nata. Si chiede che senso abbia la vita ed erotizza l’idea della morte volontaria come presa d’atto dell’insensatezza di tutto. È spaventato da questa erotizzazione, la teme come teme l’amore, e fugge dai suoi pensieri come è fuggito dalla nascente relazione d’amore. Tutti quelli con cui ha parlato fino a quando è venuto a consultarmi (genitori, amici, insegnanti) gli hanno dato delle risposte banalizzanti che, ognuna a suo modo, sono tutte caratterizzate dal non tener conto dell’esistenza del nodo. Un amico gli dice: “Non capisco tutto ‘sto casino per una ragazza, se ci sta te la fai, poi che te ne frega?”, i genitori si angosciano della sua angoscia e lo hanno accolto nel lettone tra mamma e papà, un professore gli rimanda che le questioni filosofiche sono legittime, ma che quando risuonano con quel livello di coinvolgimento personale forse c’è qualcosa che non va e bisognerebbe forse vedere uno psicologo.

Non è che abbia dovuto fare molto, semplicemente tenere una posizione che, in sé, dichiara un certo numero cose. Per esempio queste: i pensieri possono essere pensati, quando ci sono non c’è che da assumerli e vedere di che si tratta; non ci sono pensieri “sbagliati”, ci sono pensieri pensati male. Se i pensieri hanno difficoltà ad essere pensati, il fatto di lasciarli parlare, di lasciare che si facciano parola concretamente articolata nel discorso che si fa voce parlante, aiuta a poterli pensare e, eventualmente, a trovare un modo nuovo per poterli pensare. In questa impresa non è da solo: la sua funzione di analizzante è contenuta da quella d’un analista posato, tranquillo e con la barba bianca, che ascolta ciò a cui succede di farsi parola come l’ascolta il ragazzo stesso. Circolando così il discorso, gli aspetti di simbolizzazione, di decostruzione dell’immaginario, e di impasses con le quali si tocca con mano l’esistenza d’un reale, trovano, o possono trovare, una loro articolazione. Il risultato è che ha conosciuto un’altra ragazza, le ha suonato una sera al campanello di casa facendole una specie di sorpresa, la vede spesso e me ne parla. Senza angoscia.

Altra cosa è quando ci troviamo di fronte ad una sintomatologia psicotica. Anche qui, per cominciare ad articolare qualcosa attorno a questo tipo di funzionamento è utile tornare a riferirsi a un possibile sviluppo del nodo a trifoglio.nodi 2Questa volta siamo di fronte ad un “falso nodo”, ovvero niente impedisce ai due falsi nodi (A e B) di trasformarsi in un “otto” (A può trasformarsi in C e E, mentre B può trasformarsi in D e F) e niente impedisce all’otto di trasformarsi in un cerchio, ovvero in un totale indifferenziato di simbolico, reale e immaginario. Per evitare che questo succeda, per evitare in qualche modo quella specie di morte psichica che è la totale indifferenziazione, è possibile che dei nodi si facciano in punti diversi, ovvero a partire dalle diverse sovrapposizioni a cui da luogo il “falso nodo” a trifoglio.

Se il nodo si fa alla sovrapposizione di R e I abbiamo due figure simili nel senso che S risulta separato dallo spazio creato dalla confluenza di R e I. La differenza riguarda il punto di sovrapposizione. Nella configurazione A possiamo dire che I sormonta R e l’inverso succede nella configurazione B in cui è R che sormonta I. Ciò con cui ci troviamo ad avere a che fare è che le configurazioni C e D sono l’una l’immagine speculare dell’altra.

Se il nodo si fa alla sovrapposizione di R e S abbiamo due situazioni diverse a seconda se l’annodamento si faccia nel falso nodo caratterizzato da R che sormonta I (fig. B) o in quello caratterizzato da I che sormonta R (fig. A). Nel secondo caso (fig.A) avremo un otto che vede da un lato lo spazio di I e, dall’altro lato del nodo, lo spazio dato dalla confluenza di S e R (fig. E). In questo caso il quarto anello, affinché il nodo tenga, passerà sopra I, sotto I, sopra R + S e poi, prima di chiudersi ad anello, sotto R + S. Nel primo caso (fig.B), diversamente dal caso precedente e poiché e R è sovrapposto a I (fig. B), quando andiamo ad annodare S e R, ci troviamo che a tenere in quanto nodo, è l’insieme del trifoglio più il quarto anello (fig. H). Lo stesso succede se, a partire dal “falso nodo” in cui I sormonta R (fig. A) annodiamo S e I (fig. G). La questione interessante è che questa figura (G) è l’immagine speculare di quella che abbiamo descritto prima (H). lo è ma non lo è del tutto, in quanto nel gioco dello specchio, se S si trova in alto in entrambe le immagini, R e I sono invertiti, mentre il quarto anello, che lega S e I nell’immagine G, lega invece R e S nell’immagine H. Resta che, se sottraiamo dall’immagine quel che differenzia gli spazi non in termini di forma, bensì in termini di contenuto (R,S e I), l’immagine H è speculare rispetto a G.

Infine, se annodiamo S e I quando R sormonta I, otteniamo di nuovo un otto in cui R risulterà separato dalla confluenza di S e I e in cui il quarto anello sormonta e poi passa sotto R per sormontare in seguito S e I prima di passargli sotto per chiudere il nodo (fig. F). Qui la situazione è ancora diversa in quanto, se restiamo all’immagine senza specificazione dei tre registri, la figura F non è speculare, bensì identica alla figura E.

               Per quanto riguarda la psicosi, partiamo dall’osservare che le figure C e D metaforizzano in qualche modo l’idea che il tratto caratteristico della psicosi è la forclusione di qualcosa di simbolico. Questo significa che il funzionamento del Nome-del-Padre è stato tale da non consentire l’accesso al simbolico tramite il divieto che barra l’accesso all’oggetto, e questo comporta la possibilità che l’oggetto ritorni nel reale in quanto delirio o in quanto allucinazione, ovvero come immagine, acustica, visiva. tattile o eidetica, poco importa in questa sede. Tutto sta nella particolarità dell’annodamento che la specifica articolazione dell’istanza paterna ha consentito di operare. In entrambi i casi (C e D) l’annodamento si è fatto tra un simbolico “puro” e un’istanza paterna capace solo di legare il simbolico alla consistenza comune di R e I. Questo significa che appena noi tiriamo un po’ sul nodo ci troviamo a constatare che il doppio incrocio tra S e l’anello rosso che fa tenuta (una volta passa sopra e una volta passa sotto) è solo apparentemente doppio in quanto, tirando leggermente sulle due corde, l’incrocio diventa uno solo, ovvero è in un solo punto che S incrocia l’anello rosso. nodi 3Siamo insomma nella figura A1, dove basta tirare a sinistra il blu e a destra il rosso per verificare che i due cerchi si toccano in un solo punto. Affinché la sovrapposizione resti doppia, ovvero per fare in modo che una volta il blu passi sopra il rosso e una volta passi sotto, bisogna inserire una terza consistenza (fig. B1) che impedisca lo scivolamento del blu sul rosso e viceversa. È questo doppio incrocio che comporta per il soggetto la possibilità di sostenere la doppiezza costitutiva del significante e dunque, in qualche modo, la propria scissione soggettiva. Se manca una terza consistenza succede, come ho detto poc’anzi, che l’annodamento si fa tra un simbolico “puro” e un’istanza paterna capace solo di legare il simbolico alla consistenza comune di R e I. Nell’unico punto d’incrocio non c’è possibilità di articolazione significante, non c’è doppio passaggio bensì passaggio singolo. La parola è la cosa: psicosi, appunto.

Allora, per riprendere il filo della direzione di una cura di psicosi, si tratta di facilitare, attraverso il maneggiamento del transfert, un annodamento che consenta la tenuta del nodo. Questo significa legare S e I quando R passa sotto I e legare R e S quando R passa sopra I. In questo modo, legando S e R si ottiene che l’anello I sarà impedito a scovolare via dal nodo dal fatto che la consistenza che lo separa da S e R gli passa una volta sopra e una volta sotto (fig. H) e che, legando invece S e I, l’anello R sarà impedito a scivolare via dal nodo dal fatto che la consistenza che lo separa da S e I gli passa ugualmente una volta sopra e una volta sotto.

Chiuso con i nodi. Voglio solo esplicitare bene a cosa è servito questo lungo passaggio in un campo di veri e falsi trifogli, partendo dalla fine, ovvero dall’ultima annotazione riguardante il fatto che è una terza consistenza che impedisce a due anelli legati tra loro di scivolare reciprocamente fino a congiungersi in un solo punto. Si tratta di un’immagine che rende ragione di un fatto incontrovertibile e che ci aiuta a concettualizzarlo. Quando ognuno di noi parla, coltiva l’illusione che le parole corrispondano alle cose. Se dico a qualcuno “passami il sale” non è che ci sia da spremersi troppo le meningi circa l’azione che gli chiedo di compiere. La locuzione “passami il sale” e il significato di questa locuzione, ovvero l’azione richiesta dal locutore, coincidono; l’anello del simbolico in cui si fa la lingua e l’anello dell’immaginario in cui si rappresenta l’immagine della locuzione che si è prodotta si incrociano in un solo punto che ha tutta l’aria di non essere equivoco. Come ho detto, la parola è la cosa. D’altro canto quelli che tra noi non sono psicotici sanno però che la parola è supposta significare la cosa ma non è la cosa, tant’è vero che può esserci ambiguità, e si tratta qualche volta di un’ambiguità radicale, di locuzioni propriamente sibilline. Ad esempio questa: Ibis redibis non morieris in bello. È il responso della Sibilla ad un povero soldato che andava a chiederle se avrebbe riportato a casa la pelle dalla guerra per la quale stava partendo. Il responso scritto su quattro tavolette: “Ibis”, “redibis”, “non” e “morieris in bello”. Letteralmente significa: andrai, tornerai, non morirai in guerra”, oppure, a seconda che la pausa sia fatta prima o dopo il non, “andrai, non tornerai, morirai in guerra”. In effetti c’è una certa differenza. Quel che più importa è però che quest’ambiguità non è limitata all’oracolo uscente dall’antro della Sibilla. Al contrario è un’ambiguità connaturata al linguaggio. Non ci vuole molto per rendersi conto che dicendo a qualcuno “Fai come vuoi” si può voler riconoscere la libertà dell’interlocutore come si può volerlo abbandonare al suo destino. La cosa straordinaria è che l’intenzione del locutore è del tutto separata da quella supposta al locutore dal ricevitore del messaggio il quale potrà sentirsi libero o abbandonato indipendentemente dall’intenzione del primo. Se disponiamo della nozione di simbolico come separato dall’immagine che quel tratto linguistico evoca, e disponiamo ugualmente della nozione di reale come qualcosa che recede sullo sfondo vincolando il simbolico all’immaginario in un modo che non è completamente univoco essendo limitato alla funzione della lettera, allora noi siamo liberi di porci la questione del significato delle locuzioni che ci capita di sentire. Ovvero, l’incrocio in due punti di S e I, reso obbligatoriamente tale dall’interposizione tra S e I della consistenza di R, visualizza e ci rende percepibile l’ambiguità costitutiva del linguaggio. Al contrario, l’incrocio unico indica un solo significato univocamente legato al significante che lo esprime. Non esiste parola che non porti in se la propria scrittura, il reale della lettera: la semplice e innocua locuzione “da Milano” tesa ad indicare il luogo di provenienza del locutore può suonare per un orecchio psicotico, e di fatto è quello che è potuto succedere, come un’oscena ingiunzione a sfondo sessuale: “Dammi l’ano”. Questo significa che, in una certa misura, la scrittura, il ricorso al reale della lettera può risolvere l’ambiguità del significante ma che al fondo di questa ri-soluzione c’è poi una soluzione, ovvero uno scioglimento, una dis-soluzione del significante e dunque della significazione che non apre alla solidità della rappresentazione, bensì alla sua impossibilità, al reale della lettera. C’è una splendida narrazione autobiografica di Günter Grass che si intitola Sbucciando la cipolla[12]; sospetto fortemente che il titolo abbia a che fare col dato di struttura che ho appena indicato. Quando si sbuccia una cipolla, buccia dopo buccia, non si arriva alla “cipollosità” della cipolla, al suo ipotetico nucleo centrale. L’essenza della cipolla è di essere fatta di bucce sovrapposte che si sovrappongono sempre a solo ad un’altra buccia; sbuccia e risbuccia si piange, ma non si arriva da nessun’altra parte se non al reale di cui la cipolla è fatta, perdendo con questo ogni rapporto alla cipolla stessa.

Dunque la questione con la quale abbiamo a che fare nella cura di una psicosi è come permettere e facilitare il falso trifoglio in modo che non si verifichi uno scivolamento dell’immaginario fuori dallo spazio che circoscrive R e S (fig. E), che non si verifichi uno scivolamento di R fuori da S e I (fig. F) né, infine, che si possa verificare uno scivolamento di S fuori da R e I (figg. C e D) quello che sarebbe piuttosto qualcosa di simile ad un rafforzamento della forclusione.

Senza cadere in una delirante collazione tra forme del nodo e formazioni cliniche supposte corrispondervi, possiamo però utilizzare la topologia dei nodi per approfondire alcune delle evidenze che la clinica ci consegna. Di Barbara abbiamo già detto che immaginarizza un padre la cui immagine, non essendo simbolizzata, non lascia nessuno spazio al dubbio, all’ipotesi e alla sospensione del giudizio. Barbara sa sempre cosa il padre vuole da lei. Quando egli si trincera dietro lunghi silenzi e ostinati rifiuti di parlarle, Barbara impazzisce, e lo fa impazzire, per estorcergli quanto ella sa essere nella sua mente. L’immagine copre totalmente e coincide punto per punto col reale che, in quanto tale, ovvero come impossibile, cessa di esistere. Barbara sa, o almeno, sa che c’è da sapere.

Naturalmente quando Barbara mi rivolge il suo discorso o è per estorcermi il mio sapere che la riguarda oppure per chiedermi un aiuto nel lavoro di estorsione, ed eventualmente di correzione, del sapere del padre. In entrambi i casi è all’opera la stessa formazione transferale. Nel primo caso io sono il rappresentante, ma direi piuttosto il segno incontrovertibile e univoco, del funzionamento della psichiatria che, in quanto tale, è totalmente asservita alla strategia paterna. Non c’è voluto molto a correggere questa modalità di indirizzo. Il mio “no” riguarda il fatto che, prima ancora di non volere quel che Barbara mi suppone, io non voglio. Non la cerco, non ho obbiettivi, non ho finalità; semplicemente sono disponibile all’ascolto. Sono disponibile in una situazione che talvolta è estremamente difficile: piomba in Ospedale come una furia, annunciando con urla e strepiti il suo arrivo, irrompe nella stanza con voce arrochita dall’odio e grida improperi e accuse. Pochissimo spazio per articolare una parola o anche solo un ascolto che non sia totalmente succube e impotente di fronte al fiume d’odio che cola dalla sua bocca e dal suo sguardo. Il poco spazio che c’è cerco di utilizzarlo tutto: le dico qualcosa come: “non ora” oppure “le dispiace tornare tra un ora?”…”In questo momento sono impegnato, può passare più tardi?”. Sul momento questi limiti posti alla sua presenza non sembravano avere alcun effetto, ma adesso Barbara è più in grado di rimandare l’incontro/scontro col suo oggetto, di porre un freno o accettare che sia messo un freno al suo godimento. A partire da qui le accuse e gli improperi cadono, si sciolgono come neve al sole. Non ho neanche mai pensato di contrastarli, semplicemente li lascio passare, talvolta con un gesto della mano e un’espressione del volto che tende a indicare il fatto che si tratta di stupidaggini. Barbara lo coglie perfettamente, sempre, e in qualche modo si lascia rassicurare. Il suo oggetto, quel che io sono nel suo delirante investimento transferale, lascia il posto ad un po’ di reale simbolizzabile, parlabile, nominabile: “non ora”. Basta pochissimo e questo minimo di reale viene sussunto nell’immaginario che lo ricopre: io divento l’alter ego del padre, il competitor, colui che può affrontare il drago essendo lui stesso drago. In questa posizione mi chiede ovviamente di incontrare il padre, di lottare e di sconfiggerlo.

Come ho già ricordato, spesso Barbara mi ha parlato di un precedente terapeuta, morto, che lui sì che aveva capito, che lui sì sarebbe stato in grado, che lui sì avrebbe potuto antagonizzare il padre. Si tratta di una posizione investita simbolicamente, di un nodo tra simbolico e immaginario che non sopporta nessuna limitazione da parte del reale. Non c’è spazio per un minimo di castrazione e sono invece la privazione o la frustrazione che guidano la dinamica transferale di Barbara di fronte al suo oggetto. Per evitare di incorrere in quest’impasse, e per inserire, come si può, un minimo di accesso alla castrazione, metto avanti la mia impotenza: “non posso”. Non è che non voglia, che non mi senta autorizzato a farlo o che ne sia impedito da una qualche forma di timore verso l’autorità paterna, semplicemente non posso, come non posso volare o cambiare la sua sofferenza, fargliela cadere di dosso come lei mi chiede di far cadere il sapere paterno che la riguarda e del quale è oggetto.

Anche qui, in questo “non posso”, come già succedeva nel “non ora”, si tratta di un “no” che lascia trasparire dal simbolico che lo costituisce il reale che lo sottende. È questo il tratto che ne fa, o almeno ne rende possibile, la terapeuticità.


[1] Quella sul doppio è una letteratura che, oltre che affascinante, è anche molto ampia. Si va dal saggio di Rank (Il doppio, tr.it. SE 2001) al racconto di Gogol (Il naso, tr.it Einaudi 2004) alla fiaba di Andersen (L’ombra e altri racconti, tr.it. Orecchio Acerbo, 2005) al racconto di Stevenson (Il Dr Jakill e Mr Hyde, tr. it. Feltrinelli 1991), a quello di Poe (William Wilson, tr. it. Mondadori 2002) a quello di Saramago (L’uomo duplicato, tr. it. Einaudi, 2003), a quello di Dostoevskij (Il sosia, tr. it. Feltrinelli 2003) ai racconti di Hoffmann (Romanzi e racconti, tr. it. Einaudi 1969) e agli stessi racconti musicati da Hoffenbach, fino alla bella raccolta di Bovino Davico (L’io e l’altro. Racconti fantastici sul doppio, Einaudi 2004).

[2] “Ciò che è impossibilitato a venire all’interno viene all’esterno” (Freud) e “ciò che è forcluso nel simbolico torna nel reale”.(Lacan). Queste due proposizioni, citate a memoria, indicano lo stesso concetto, ovvero che l’oggetto che si presenta all’esterno, nel reale, sotto la forma di allucinazione o di idea delirante, è il corrispettivo di un oggetto impedito da una resistenza specificamente psicotica (Verwerfung o, come tradotto da Lacan, forsclusione) a presentarsi all’interno dell’apparato psichico in quanto rappresentazione.

[3] È un caso ma, nello stesso tempo, non è un caso se le due locuzioni “Io e Dio” e “Io ed Io” hanno la stessa identità fonetica. Non è poi così facile distinguere tra le due. Per inciso ricordo che Io e Dio è anche il titolo di un bel libro di Vito Mancuso (Garzanti, 2011) che, da questo punto di vista, può essere letto in continuità con Eclisse del Dio unico (F. Palazzoli, Il Saggiatore, 2012) che evoca la dimensione di una religiosità prét à porter nella quale a ognuno è concesso di credere al suo Dio, come si diceva: Io ed Io, piuttosto che Io e Dio. A riprova del fatto che si tratta di qualcosa che caratterizza lo spirito dei tempi, lo stesso concetto, ovvero quello di una sorta di politeismo di ritorno, si trova espresso anche da Ulrich Beck (Il Dio personale, tr. it. Laterza, 2009).

[4] Da quello che ricordo del racconto in verità una specie di simmetria viene ripristinata, sia pure a senso inverso, ed è questo che consente al postino di sfuggire all’animale. Ad un certo punto infatti il postino si rende conto che l’animale percepisce la paura che provoca ed è la paura di diventarne preda che fa di un altro animale una sua preda. Quindi basta non aver paura di ciò che si presenta come fonte di paura e il gioco è fatto: la preda cessa di essere tale.

[5] Cfr. Fabrizio Gambini, La Nuova Storia di Pinocchio. Ovvero la Nuova Economia Psichica (NEP) al tempo del seno come segno della differenza tra i sessi, in “Psichiatria/Informazione”, III – 2013, p. 43.

[6] È un altro modo di intendere la nozione di “doppio legame”: un legame che si fa doppio legando il soggetto impedito a divenire all’oggetto che quel soggetto è per l’Altro.

[7] A titolo di aneddoto integrativo ricordo che l’omone dormiva in un lettino nel tinello, coperto di ciniglia rosa e sul quale troneggiava un’enorme bambola.

[8] Cfr. Fabrizio Gambini, La Nuova Storia di Pinocchio, cit. Inoltre tutta la questione della “simmetria” e della sua mancanza nell’esercizio della sessualità si rapporta molto precisamente a quanto Lacan tratta nel Seminario dedicato al Sinthome e a questo si rimanda: Là où il y a rapport, c’est dans la mesure où il y a Sinthome, c’est-à-dire où, comme je l’ai dit, c’est du Sinthome qu’est supporté l’autre sexe…Le Sinthome se caractérise de la non-équivalence. J. Lacan, Le Sinthome, Lezione del 17 febbraio 1976, p. 138-139.

 [9] Immaginare il nodo tra immaginario, reale e simbolico (I,R e S) è già un modo per entrare nel vortice abissale a cui il nodo apre: l’immaginario attraverso cui si immagina la funzione dell’immagine, è un immaginario diverso da quello che è immaginato come oggetto della nostra riflessione? Nella proposta che Lacan fa del nodo a più riprese e in diverse forme la questione è sempre presente e trattata a partire dal fatto che immaginaria è la consistenza della corda con la quale si fa un nodo tra immaginario, reale e simbolico, anche se una delle conseguenze di una forma particolare dell’annodamento (nodo borromeo) è che i tre anelli (I, R e S) devono risultare strettamente equivalenti, ovvero che ognuno deve essere il terzo necessario rispetto agli altri due affinché vi sia tenuta del nodo stesso.

[10] Cfr. F. Gambini, Paranoie, in corso di stampa.

[11] La questione è stata già accennata in un scritto al quale rimando per un suo approfondimento nel contesto del quale quello scritto trattava: F. Gambini, Un ricovero come esperienza di libertà, parte I e II, in “Psichiatria/Informazione” numeri

[12] G. Grass, Sbucciando la cipolla, tr. it. Einaudi 2007.

 

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